IL CANE RANDAGIO DELLA FOTOGRAFIA
DAIDO MORIYAMA A REGGIO EMILIA
Il Festival Fotografia Europea di Reggio Emilia raggiunge la ventesima
edizione e la intitola “Avere vent’anni”, rivolgendo l’attenzione dei fotografi
partecipanti e dei visitatori su questa età della vita che rappresenta uno
snodo fondamentale nel passaggio tra adolescenza e età adulta, quanto mai
problematico in questi tempi di grande incertezza, di caduta di riferimenti
ideali e anche morali (con un pensiero al famoso incipit del romanzo di Paul
Nizan, Aden Arabia: “Avevo vent’anni, non permetterò a nessuno di dire che
è la più bella età della vita”). La manifestazione ha come punto focale i grandi
chiostri di quello che fu il monastero benedettino di San Pietro, sulla via
Emilia, che ospitano al piano terreno e in quello superiore dieci mostre che,
tranne una, affrontano il tema della condizione giovanile oggi, in vari paesi e
attraverso diversi snodi, che vanno dal tema ambientale, al disagio
esistenziale, alla rivolta, alla lotta per la libertà (Iran, Hong Kong). Le mostre
continuano in altri spazi cittadini (Palazzo da Mosto, Palazzo dei Musei,
Spazio Gerra) con prospettive diverse e interessanti. Mi soffermo però sulla
mostra che non c’entra nulla con questo tema, ospitata sempre ai Chiostri di
San Pietro, organizzata dal brasiliano Instituto Moreira Salles, già presentata
a Berlino, Londra, Losanna. Riguarda il fotografo giapponese Daido
Moriyama, nato nel 1938, la cui figura è divenuta sempre più importante nel
panorama internazionale, affiancando connazionali di fama come Nobuyoshi
Araki e Hiroshi Sugimoto. Del resto il Giappone ha una grande tradizione nel
campo delle arti visive, dalla fotografia al cinema alla pittura, ed è molto
interessante per il rapporto che si è intrecciato tra la propria tradizione
culturale e gli influssi occidentali. Moriyama approda a Tokio da Osaka a
inizio anni ’60, divenendo assistente di Eikoh Hosoe, anche nel corso delle
famose fotografie che questi realizzò allo scrittore Yukio Mishima, che ne
esaltavano il corpo e la carica erotica. Nel 1964 avvia la sua carriera come
fotografo free lance, iniziando a porsi le domande che lo hanno sempre
accompagnato: che cos’è la fotografia e quale il suo rapporto con la realtà ?
Ha a che fare con l’arte? E con l’estetica? E con la parola scritta? Il suo
lavoro rappresenta l’antitesi di un modo di concepire la fotografia che
privilegia la bellezza, la perfezione tecnica, lo studio della composizione, della
luce; la ricerca, nel foto reportage, del cosiddetto (da Cartier Bresson)
“momento decisivo”, che permette di fissare quelle che l’orrido linguaggio
contemporaneo definisce immagini “iconiche”, destinate a restare nella
memoria. O quelle realizzate con complicate apparecchiature, camere
ottiche, restando magari ore ad attendere la luce giusta, per consegnare agli
adepti scatti unici, perfetti. In realtà anche Moriyama ha realizzato una foto
“iconica”, che lo rappresenta: un cane randagio, nero, dolente ma fiero,
determinato, nel cui sguardo e nella cui essenza il fotografo si identifica.
Come il cane si aggira per le città (non gli interessano i paesaggi extraurbani)
e, con la piccola macchina fotografica che tiene con una sola mano, cattura la
vita, ferma momenti che il suo sguardo attraversa, con rapidità , senza
pensare. Non gli interessa se l’immagine è storta, sfocata, mossa: essa
rappresenta comunque un flusso, una parte di un insieme. Si ispira alla
scrittura nomade di Jack Kerouac di “On the road”, alle foto di strada di
William Klein, Robert Frank. Alle foto notturne, fortemente contrastate di
Weegee. Ma la sua particolarità è l’attenzione non alla singola immagine ma
all’insieme di esse, come se compilasse un diario visivo (del resto fotografia
significa scritta con la luce). Attraversa un Giappone urbano, investito da una
enorme trasformazione culturale, l’americanizzazione, all’insegna di un
consumismo bulimico che riempie i supermercati di pile di prodotti inscatolati,
che vanno acquistati, accumulati. E che lui fotografa, come Andy Warhol. Le
sue foto però non sono a colori (colore e digitale arriveranno per lui molto
dopo) ma di un bianco e nero in cui le cose e le persone sembrano scaturire
come squarci di luce nell’oscurità . Se la vita è caotica, anche la sua
rappresentazione deve esserlo. Moriyama recupera anche immagini dalla
televisione, foto scartate di colleghi, spezzoni di pellicola gettati, fotocopie,
foto di foto. La destinazione principale dei suoi lavori non sono tanto le
gallerie d’arte ma le pubblicazioni, libri e riviste su cui sviluppa discorsi che
riguardano la società giapponese, la sua velocissima modernizzazione e la
perdita dei valori tradizionali, il ruolo dei mezzi di comunicazione nella
manipolazione delle informazioni. Gli anni ’60 sono attraversati da grandi
fermenti a livello mondiale, entrano in crisi forme di potere che sembravano
cristallizzate, uscite dal secondo dopoguerra, sottoposte alla critica delle
nuove generazioni non solo da un punto di vista politico e sociale ma anche
nelle forme della rappresentazione artistica. Si sviluppa un grande fenomeno
di ricerca e innovazione che riguarda tutte le arti. In Giappone la
contestazione assume connotati estremi, sfociando anche in violenza e
terrorismo, mentre cinema, fotografia, letteratura, teatro imboccano strade di
grande sperimentalismo che mettono in discussione le forme tradizionali della
produzione. Moriyama, anche se meno impegnato politicamente di altri artisti,
entra in questo movimento globale con il suo modo innovativo di proporre il
linguaggio fotografico. Realizza una serie di dodici portfolio intitolati “Accident
(Premeditated or not) in cui elabora temi diversi, evidenziandone la
manipolazione da parte dei mezzi di comunicazione, come l’assassinio di
Robert Kennedy, la narrazione di incidenti (mutuata da Warhol), la funzione di
controllo sulle persone da parte degli apparati visivi (aveva colto con molto
anticipo un tema oggi epocale), l’intrusione dei media nella sfera privata, il
degrado ambientale dovuto all’industrializzazione e così via. Nel 1968 un
gruppo di fotografi, critici d’arte, scrittori pubblica la rivista “Provoke. Materiali
provocatori per il pensiero”, in cui si sostiene la centralità delle immagini nella
cattura e interpretazione di quella realtà che non è accessibile alla sola parola
scritta, in opposizione al linguaggio standardizzato delle riviste commerciali e
del cosiddetto documentario sociale. La rivista, di cui usciranno quattro
numeri, avrà una grande influenza nel mondo artistico e intellettuale
giapponese, per i contenuti, l’impaginazione, la veste grafica. Moriyama
realizza un servizio sull’eros, tema molto presente nel mondo artistico
giapponese, nel rapporto tra desiderio, sentimento e feticismo delle immagini.
Col suo stile “are, bure, boke” (sgranato, mosso, sfocato) rappresenta le pose
erotiche di una ragazza misteriosa, mentre nel numero successivo fotografa
scaffali di supermercati colmi di cibo in scatola, dove alla esaltazione del
mondo del consumo di un Warhol sostituisce il senso luttuoso di un
fenomeno che distrugge la tradizione giapponese. La fine della rivista
rappresentò la sconfitta di chi, criticando radicalmente il mondo presente
attraverso una rivoluzione linguistica, non sapeva però indicare una
alternativa. Sempre nel 1968 intraprende un viaggio in autostop di tre anni,
attraverso il Giappone, ispirato da Kerouac, fotografando al volo, senza
pensare, senza avere un particolare tema se non la documentazione della
vita che incontra, e raccogliendo poi queste foto in un libro del 1972,
“Farewell, Photography”, dove utilizza anche immagini della sua produzione
precedente, riproduzioni con fotocopiatrici di bassa qualità , ritagli di foto
solarizzate, spezzoni di negativi raccolti sul pavimento: un’operazione di
decostruzione del linguaggio fotografico, di crisi e messa in discussione del
proprio ruolo e della fotografia come rappresentazione del reale e strumento
politico per cambiare la società . Seguì un lungo periodo di inattività , fino a
inizio anni ’80. Con la serie “Memories of a Dog” ripercorre
autobiograficamente, anche con testi, il suo passato, intrecciando memorie
personali e citazioni di scrittori, registi, fotografi che sente affini, a partire dal
padre della fotografia, Nicéphore Niepce, le cui immagini sgranate richiamano
le sue. La serie confluisce nel libro “Light and Shadow”, in cui riporta anche
immagini tratte dalle sue passeggiate, sempre con il suo bianco e nero
fortemente contrastato e reso più monumentale. Il libro “Labyrinth”
rappresenta una rielaborazione del lavoro di Moriyama dagli anni ’60 ai 2000,
espressa in modalità non cronologica lineare né tematica ma, come da titolo,
labirintica, spezzata, magmatica, come l’autore vede la sua vita. La
produzione recente vede il passaggio al digitale e al colore, che rappresenta,
a mio avviso, anche un certo calo di forza e specificità della sua opera,
mentre la rivista “Record”, da lui fondata, ospita immagini e riflessioni in cui,
ancora, Moriyama si interroga sul senso della fotografia, il rapporto tra
rappresentazione e memoria. La mostra di Reggio Emilia, la città di Ghirri, ci
invita ancora a porci la domanda che Moriyama propone: “Che cos’è la
fotografia?”
SAURO SASSI
DAIDO MORIYAMA: A RETROSPECTIVE
REGGIO EMILIA, CHIOSTRI DI SAN PIETRO, VIA EMILIA SAN PIETRO
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