STARE BENISSIMO: Potenza e tensione del desiderio


    Martina Testa



                                                        Fonte: Stare benissimo, Vallone. D., Edizioni Efesto, 2025

Stare benissimo”: il titolo suona ambivalente, tra l’affermazione, l’augurio, la risposta ironica. Il leitmotiv è il Desiderio, la cui etimologia ci restituisce l’evanescenza di tale termine che deriva da “siderus”, (stella) che, al di là delle possibili interpretazioni del “de” privativo, riesce a rendere solo in parte l'idea di quell’anelito verso qualcosa a cui si tende faticosamente. Tale termine riesce a rendere l’idea della distanza abissale, siderale, appunto, fra oggetto del desiderio e desiderante e sembra trarre alimento esattamente da quella mancanza/ vuoto/lontananza.


C’è qualcosa in questi racconti che va oltre il concetto di Desiderio, una continua tensione verso qualcosa di inappagato, un appetito insaziabile, un vorace serpente attratto del vuoto che si ciba di buio, una costante tensione/attrazione verso pulsioni inconsce che pulsano sotto la pelle nuda. Mi viene in mente l’explicit del racconto “Piscina feriale” di Pavese: «Ma siamo tutti inquieti, chi seduto e chi disteso, qualcuno contorto, e dentro di noi c’è un vuoto, un’attesa che ci fa trasalire la pelle nuda.» Ecco, in questi racconti ho sentito tutta l’inquietudine, la percezione del vuoto che fa sussultare la carne. La furia bestiale, istintuale, viscerale del nostro inconscio sembra bussare nei personaggi di questi racconti, come se riuscissero a dare voce al vuoto profondo di cui sentiamo un’attrazione fortissima e fatale.


La scelta di suddividere l’opera in due sezioni è funzionale al percorso di senso intrapreso: “Luci improvvise”, in cui i personaggi “subiscono” il desiderio, loro malgrado, quasi come un’ illuminazione, un’ epifania di esso e “Gli autonomi” in cui personaggi agiscono assorti in una sorta di sonnambulismo ebbro, si lasciano guidare con consapevolezza da quelle forze centrifughe fino alle conseguenze più estreme. Se nella prima sezione, quindi, i personaggi sono inconsapevoli della forza vibrante e misteriosa che li spinge ad agire e si ritrovano lì, sul crinale del desiderio, senza riuscire a cedere del tutto, trattenuti da altrettante forze interiori, la seconda sezione ci parla di una manifestazione subitanea e improvvisa della vita vera e più consapevole, oltre l’inganno di un esistere quotidiano e borghese, del perbenismo dilagante di un Italia piena di contraddizioni.


Emerge, sin dalla prima pagina, la capacità descrittiva di Vallone, la quasi morbosità dello sguardo di chi ama il mondo, lo osserva, lo fa proprio, cerca di catturarlo con la parola scritta, unico strumento rimastoci per creare contatti autentici e ipotizzare piste di senso nel vuoto di significato con il quale riempiamo le nostre vite, quasi fossero le vetrine di Amsterdam. Non manca anche un certo lirismo, perché lirica è la vita con la sua dose di sesso, brutalità, violenza, sangue, amore, morte e vita e, ovviamente, Desiderio a cui lo scrittore sembra restituire parte della sua scintilla.


Fa riflettere quanto questo libro di un autore giovanissimo, tradisca, in realtà, una maturità letteraria consapevole e accorta che sa giocare con i classici, strizzando l’occhio con disinvoltura e sicurezza. L’ironia è lo strumento lucido e critico tramite il quale si innesca questo dialogo, l’ironia sagace di chi ama la letteratura, la scrittura e sa piegare la parola fino all’estremo e al gioco grottesco. Un’ironia sferzante, urticante che gratta la pelle come un eritema pruriginoso che esalta i sensi, le forze mistiche e liberatorie che a volte muovono le nostre azioni, dettate da qualcosa di insidioso, strisciante. Un’ ironia che impregna tutto il libro, uno sguardo irrisorio e di scherno verso una società perbenista, infiocchetta e, quindi, alla fine, vuota, sottoposta alla vanitas, con quel senso di vacuità dilagante dettato dalla forma a cui ci atteniamo quotidianamente e alle sue pose plastiche. «Ãˆ meglio che ogni fibra si spezzi e vinca la furia»: ho sentito pulsare fino alle tempie “Monologo delle 3 del mattino” di Sylvia Plath sin dalle prime pagine, in maniera forte, violenta, reazione alla vuota forma.


Tra i modelli dichiarati dallo stesso autore vi è Pynchon, di cui si sente tutta la carica eversiva dei suoi racconti e, ovviamente, David Faster Wallace e il gusto tutto wallaciano di giocare a scacchi con la vita; alcuni dei personaggi, ad esempio, mettono in campo le proprie capacità strategiche per perseguire i propri desideri, con esiti negativi, probabilmente perché quelle stesse azioni si rivelano pretesti per non agire, per giustificare la loro inettitudine. 


C’è in questo, forse, uno degli aspetti “più pericolosi” di questo libro, se si ammette che è facile empatizzare proprio con l’inettitudine di molti dei personaggi dei racconti che non sembrano tanto lontani dal nostro orizzonte sociale e personale. Infatti, anche quelli moralmente più discutibili ci sembrano spaventosamente vicini, non solo grazie alla focalizzazione a volte antifrastica. La misoginia di alcuni protagonisti, ad esempio, tradisce qualcosa di più profondo. È il paravento che nasconde quel senso di inettitudine che emerge nella vita di ogni individuo, in maniera più o meno manifesta. Ãˆ forse il Desiderio stesso di Esistere che guida le azioni dei personaggi, i quali cercano la propria autoaffermazione, in maniera più o meno conscia, attraverso anche atti estremi, sicuramente egotici ma che tradiscono una fame di sguardi, l'esigenza di esser "visti" dagli altri per essere riconosciuti, finalmente, come individui.


Quella tensione strisciante che guida i protagonisti del libro è forse l’approdo di qualcosa che vibra all’inizio e che corrode, e, alla fine, li conduce al di là della linea. L’esito, in fondo, è lo stesso. È il ritrovarsi inermi verso qualcosa che spaventa, atterrisce ma, in qualche modo, si percepisce necessario. Dalla furia omicida dostoevskiana, all’atto più nobile di protesta, dall’atto più mediocre a quello più orrido, i personaggi perseguono qualcosa di concreto che squarci il velo, li esorti a reagire alla stasi dell’esistenza.


Certo, ci sarebbe da scomporsi ad ogni pagina se si prestasse fede alla nostra parte borghese e perbenista, ma sembra proprio questa che Vallone vuole colpire, abbattere. La letteratura, quella potente, quella autentica non si può e non si deve accontentare di risposte rassicuranti: l’ultimo racconto, ad esempio, è quasi atto di amore per un pianeta che implora aiuto, un tentativo di dare voce al Desiderio-adesso sì, consapevole- che chiude il cerchio di una serie di racconti che ci inchioda su noi stessi senza giudicarci/ puntarci il dito contro. La dinamo del Desiderio, impazzita è pronta esplodere in qualsiasi momento, chi si scandalizza di questo, non si può non concordare con Pasolini, è sempre banale. 


In tal senso, si percepisce tutta la forza di questi racconti: la parola viene rincorsa, agognata desiderata, sedotta fino allo stremo, in un atto di amore bellissimo che in qualche modo l’autore restituisce al lettore: se il Desiderio fosse carta, inchiostro, sarebbe esattamente questo libro.




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