LOUISE NEVELSON, ARTISTA FEMMINILE, FEMMINISTA, ALCHEMICA.
Per le donne è sempre stato complicato imporsi nel mondo dell’arte e solo nella seconda metà del ventesimo secolo hanno cominciato ad essere più numerose e visibili. Negli Stati Uniti ci sono state tre grandi artiste che hanno condiviso alcuni tratti, pur restando assolutamente indipendenti e non inseribili in gruppi o movimenti. Ciò che le accomuna sono le origini europee.
Il padre di Georgia O’ Keeffe (1887-1986), pittrice di fiori con riferimenti sessuali e paesaggi desertici era irlandese e la madre ungherese. Louise Bourgeois (1911-2010), che scolpiva grandi falli e ragni materni e protettivi, era di origine francese. Louise Nevelson (1899-1988) era nata in Ucraina. Altro tratto comune, come si vede, la lunga vita. Infine, le difficoltà che hanno dovuto affrontare per affermarsi, che hanno richiesto a ciascuna una grande forza di carattere, proprio perché, in quanto donne, partivano comunque svantaggiate rispetto ai colleghi maschi. Ora il Palazzo Fava a Bologna ospita una personale della Nevelson, che occupa sei sale al piano nobile e permette di seguirne le varie fasi del lavoro, in un allestimento bene ordinato, dove l’occhio non può non soffermarsi anche, in alto, sui fregi dei Carracci e dei loro allievi. Un tratto in comune della Nevelson e della Bourgeois (la scultrice più cara di sempre, con uno dei suoi grandi ragni venduto nel 2023 a oltre 32 milioni di dollari) è anche il fatto di derivare il proprio modus operandi da esperienze dell’infanzia, con la seconda che riprende il cucito praticato nel laboratorio di restauro di arazzi dei genitori, mentre la Nevelson elegge il legno a materia fondamentale della sua pratica dal ricordo dei boschi posseduti dal nonno in Russia e dal lavoro di taglialegna che il padre esercitava negli Stati Uniti.
Nonostante le ristrettezze economiche, la sua determinazione era incrollabile (“Seppi fin dall’inizio che volevo essere un’artista”) portandola anche al divorzio e a lasciare il figlio all’ex marito per proseguire la propria attività . Il suo lavoro si concentra sui materiali con l’intento non di manipolarli ma di assemblarli, conferendo loro una nuova vita, a partire dalla memoria che essi contengono. Inizia coi collage per passare a opere di grandi dimensioni realizzate raccogliendo oggetti di legno scartati, trovati nelle strade, tra i rifiuti, dipingendoli di nero che, per lei, non ha un significato funebre ma, anzi, rappresenta la somma di tutti i colori e quello più aristocratico, che conferisce quindi ad essi una forma di riscatto e nobiltà .
Questi oggetti, o parti di essi, vengono poi composti in grandi sculture, autoportanti o appese a parete come quadri. Il recuperare, ordinare, mantenere la memoria delle cose sono attività femminili, che la Nevelson rivendica. In quanto artista, conferisce loro un senso che va oltre la loro pura presenza, in qualche modo riprendendo il gesto di Duchamp, rispetto al quale si differenzia perché non solo sceglie gli oggetti ma li cura, li riscatta, sottraendoli al ciclo capitalista di acquisizione, consumo, eliminazione. Le diverse sale della mostra vengono concepite dalla curatrice come un processo di autoaffermazione femminile e anche come un percorso alchemico, perché dopo le opere nere, che furono la maggioranza, incontriamo gli altri due colori che ricorrono nelle opere della Nevelson, il bianco e l’oro. Se il nero rimanda alla prima fase della trasformazione, “Nigredo”, in cui la materia viene sottoposta a un processo di decomposizione, il bianco richiama la seconda, “Albedo”, quella della purificazione, uscita dal caos, rigenerazione, mentre la terza, “Rubedo” è lo stadio ultimo, la pietra filosofale, l’oro come perfezione, eternità .
In questo senso va letta la sua partecipazione alla Biennale Arte di Venezia del 1962, a rappresentare gli Stati Uniti, dove presentò tre sue sculture monocrome, una bianca, una nera e una dorata. I materiali da lei utilizzati si differenziano ovviamente anche da quelli degli artisti pop, che presentavano e enfatizzavano gli oggetti di consumo, vivacemente colorati, la cui presenza risultava aggressiva verso lo spettatore. Gli oggetti della Nevelson richiamano invece le sue origini povere, di immigrata, di donna di fronte alle difficoltà della vita quotidiana. In qualche modo li sacralizza, conferisce loro nuovo senso, riattiva la memoria che contengono. Per ciò che riguarda una lettura femminista del suo lavoro ci si può richiamare alle considerazioni di Carla Lonzi, prima critica d’arte e poi tra le maggiori teoriche del femminismo italiano, che parla della presenza nella sua opera di un’ambiguità tutta femminile, una profonda ossessione per distruzione e trasfigurazione, una sorta di esorcismo, un’opera densa di energie ribelli che desiderano essere liberate: “Tutto viene recuperato nell’attimo stesso in cui viene perduto e rinnegato”. Dichiarava la Nevelson: “La parola creazione è come la terra, i vulcani, la madre che ha le doglie e questa pioggia, tutte le emozioni nell’oceano, il tumulto”. Percorrendo le sale di Palazzo Fava e in particolare la prima, che contiene in alto il fregio dei Carracci con le storie di Giasone, si può immaginare la Nevelson come una Medea, una maga che trasfigura la materia, la donna immigrata che non accetta i ruoli che la società le vorrebbe imporre. Affascinante anche confrontare la sua opera coi soffitti lignei delle varie sale, variazioni e corrispondenze per un’artista che amava anche la musica.
SAURO SASSI
LOUISE NEVELSON BOLOGNA PALAZZO FAVA FINO AL 20 LUGLIO 2025
DA MARTEDI’ A DOMENICA ORE 10.00 – 19.00 BIGLIETTO INTERO EUR 10.00
RIDOTTO EUR 5 (75 ANNI COMPIUTI, TESSERA FAI, CARD CULTURA, BOLOGNA WELCOME CARD, STUDENTI UNIVERSITARI FINO A 26 ANNI) GIOVANI DA 6 A 18 ANNI, GRATUITO BAMBINI FINO A 5 ANNI


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