Martina Testa
Fonte: La Peste, Camus A., Bompiani, 2017
Rileggere La Peste di Albert Camus, oggi, in questa epoca liquida, sembra essere una scelta ovvia e scontata, soprattutto se lo si fa per pretendere delle risposte a delle domande sollecitate solo dalla situazione attuale. Tali domande sono, così, malposte, perché dettate dalle sole circostanze contingenti, e quindi, insufficienti.
Il romanzo si presta benissimo a una lettura letterale: una pandemia di Peste sconvolge la cittadina di Orano e i suoi abitanti, destabilizzando le vite di ciascuno. Fermarsi all’intreccio è la strada più semplice e più “conciliante” con la nostra sensibilità scossa da quel sentimento di impotenza che accompagna le nostre vite di fronte allo sfacelo bellico, etico, ambientale a cui assistiamo ogni giorno, e, nello stesso tempo, quella che ci fa approdare a conclusioni negative e disfattiste. Ci si ritrova, così, spiazzati, deragliati, sconfitti. Tale prospettiva è inconciliabile con la figura di Camus, che, a differenza di quanto si potrebbe-e converrebbe- credere, non è uno scrittore nichilista. Sarebbe dunque necessario, da parte del lettore, uno sforzo in più, che prescinda da un’interpretazione solamente letterale. Anche a voler leggere il romanzo come mera allusione e critica al nazifascismo e ad ogni totalitarismo, comporterebbe un rischio non minore: quello di ridurre la narrazione a mera astrazione, simbolo, seppur atrocemente attuale, di una peste totalitaria sempre in agguato, e pronta a risorgere dalle ceneri di quella vecchia. Non si tratta qui di rifiutare in toto entrambe le prospettive, quella etico-esistenziale e quella socio-politica: emergono entrambe nell’opera, gravide di domande con le quali si è costretti a confrontarsi. Anche a voler leggere La Peste solo dal punto di vista ontologico, come un oscuro e atavico male che minaccia la vita dell’individuo, sarebbe un’astrazione fine a se stessa.
Le tre prospettive quindi, andrebbero integrate, al fine di farne strumento ermeneutico che permetta di riflettere su questioni diverse. D’altronde lo stesso Camus ha rispetto per il lettore che non tratta con paternalismo, e non gli concede soluzioni o letture concilianti all’interno del romanzo. Gli stessi personaggi non si esprimano retoricamente come portatori di particolari ideologie da propinare a chi legge, al contrario, essi appaiono privi di grandi slanci eroici o gesti plateali e romanzeschi: sono “umani” e lo sono in maniera disarmante. I protagonisti non assumono spessore nella loro individualità o monumentalità ma attraverso il precipuo confronto con altri personaggi.
L’opera è stata scritta nel 1947 e in esergo Camus ci ricorda che la vicenda si svolge nel “194…” omettendo allusivamente l’ultima cifra. Il protagonista è un medico, Rieux, che si prodiga con tutto se stesso per guarire i propri pazienti affetti dalla peste e per cercare di arginare la malattia dalla città di Orano. Già è evidente la doppia lettura a cui si presta questo personaggio: potrebbe essere l’intellettuale che lotta e si contrappone al nazifascismo, oppure, più semplicemente, Rieux è “solo” un medico che svolge con diligenza la propria professione. Quest’ultima lettura indurrebbe a vedere nel protagonista la figura di molti medici, infermieri, operatori sanitari che si spendono quotidianamente con tutte le loro forze per supportare i propri pazienti. In entrambi i casi vi è un rischio in agguato: quello di fare di Rieux un eroe, che si batte senza macchia e senza paura, privo di viltà e di sentimenti umani. Inoltre, idolatrare chi ha combattuto in prima persona contro il nazifascismo e contro ogni totalitarismo con tutte le conseguenze possibili, è un rischio non meno pericoloso. Sporcare con il sangue del martire chi combatte con le proprie forze da semplice essere umano, equivale a vanificare qualsiasi tipo di lotta e a non rispettare la dignità di chi la compie. Camus ci salva innanzitutto da questa forma di cecità: Rieux non è affatto un eroe, in realtà non è neppure così carismatico e “forte” come personaggio. Sono forti e carismatiche le sue azioni, mai plateali: egli agisce e pensa come un uomo e non c’è nulla di mediocre in questo.
Esemplificativo, in questo senso, è il confronto con Padre Paneloux, portatore della morale cristiana:
«Sì – disse – sì, anche lei lavora per la salvezza dell’uomo». Rieux tentava di sorridere. «La salvezza dell’uomo è un’espressione troppo grande per me. Io non vado così lontano. La sua salute m’interessa, prima di tutto la sua salute.»
Apparentemente la risposta del protagonista è la risposta lapidaria, lucida e critica che un medico può dare a un prete: la scienza che risponde alla religione. Rieux, dedito alle ragioni della scienza, sembra, in realtà, parlare di una salute che non sia prettamente fisica. Cosa significa questo? Che Camus, attraverso il personaggio del medico, voglia relegare la discussione sulla peste a un ambito solo metafisico e, quindi, ridurre tutto a mera astrazione, contraddicendo così buona parte delle riflessioni presenti nel suo scritto? Per cercare di comprendere meglio, si potrebbe fare ricorso a un altro personaggio, Tarrou, che grazie al confronto con Rieux, assume lo stesso spessore umano e pari dignità. Tarrou afferma:
«L’unico problema concreto che oggi conosco è se si può essere un santo senza Dio.»
Dunque egli aspira a un nuovo tipo di santità, laica e senza Dio. Messo da parte Dio, cosa resta? Resta l’individuo con la sua sete di domande inappagate e con il proprio smarrimento. Si comprende, allora, perché la riflessione di Tarrou appare risolutiva per la comprensione della risposta che il medico aveva dato al prete. Entrambi gli amici aspirano a un tipo di etica diversa da quella di Paneloux, un’etica giocata sul terreno degli uomini e non sul piano divino. È forse questa una prospettiva nichilista, disfattista? Si comprende come la risposta sia negativa, perché la santità a cui si fa riferimento non può essere elargita né concessa da nessuno, né in cielo, né in terra. Occorre uno sforzo, uno strenuo allenamento etico per conquistarla e non è certo una lotta individualista. Sono ancora le parole di Tarrou che ci permettono di sondare più in profondità tale etica, quando egli ravvisa nella propria morale due principi fondamentali: la comprensione, e più avanti, la compassione, la sola strada che permetta il raggiungimento della pace.
Questo è quello che mi sembra di scorgere nella scrittura di Camus: uno sforzo costante di comprensione che, attraverso il cum patior, permetta di affrontare collettivamente ogni tipo di peste in una prospettiva solidaristica che non prescinda da un’analisi anche individuale al fine di un bene collettivo, la pace tanto agognata.
Questo è quello che mi sembra di scorgere nella scrittura di Camus: uno sforzo costante di comprensione che, attraverso il cum patior, permetta di affrontare collettivamente ogni tipo di peste in una prospettiva solidaristica che non prescinda da un’analisi anche individuale al fine di un bene collettivo, la pace tanto agognata.
D’altronde è un altro personaggio, Lambert, a ragguagliarci sul fatto che:
«il bene comune è fatto della felicità di ognuno».
In Camus si potrebbe parlare di “umanesimo civile” se con civile non si intende quello ideologicamente partitico. L’autore sembra protendere per un’etica laica che scelga di rispettare e difendere l’individuo con rigore etico e con una disciplina che fonda le sue radici sull’amore. Tale atteggiamento nello scrittore francese si declina in molti modi, innanzitutto nel rifiuto di una morale preconcetta che afferma che il solo modo per pensare agli ultimi sia aderire a un partito o scegliere una religione. L’etica di Camus è ancora più salda perché non si acquieta sulle proprie posizioni, ma pretende di “cercare la salute (santé fr.)” non solo in sé stessi ma anche negli altri, esortandoli a uno sforzo di maggiore rispetto di ogni individualità.
Alla fine del romanzo, i congiunti possono rincontrarsi dopo la separazione imposta dalla peste:
«Rieux pensava fosse giusto che almeno ogni tanto la gioia ricompensasse coloro che si accontentano dell’uomo e del suo povero e terribile amore.»
Questo “accontentarsi”, si è visto, non è da intendersi come resa o sconfitta, anzi, è prendere consapevolezza che la sola risorsa per vivere sia amare e farsi amare.
Sembra emergere dalla lettura dell’opera una disarmante fiducia nei confronti degli esseri umani, molto più votati al bene che al male che è, socraticamente parlando, ignoranza del bene. Questa prospettiva è esplicitamente dichiarata da Camus che, con un audace gioco filologico e metanarrativo, fa riprendere a Rieux gli appunti di Tarrou sulla peste per usarli come bozza per il resoconto che svolgerà sul medesimo tema per dimostrare che:
«ci sono negli uomini più cose da ammirare che cose da disprezzare.».
Le ultime pagine dell’opera risultano sinistre e inquietanti: l’ipotesi che il bacillo della peste non muore mai, ma è sempre in agguato con la possibilità che si ripresenti in futuro, è sconfortante. Si può, tuttavia, intuire che tali affermazioni non sono da intendersi letteralmente ma che l’autore ci voglia suggerire qualcosa di più. Esistono malattie, vulnus, flagelli senza nome che non bisogna sottovalutare, non meno pericolosi del morbo della peste. Possiamo però opporci, ritrovare sempre la forza, se non per sconfiggere la “peste”, almeno di batterci con sguardo critico e lucidità analitica e, soprattutto, con quel sentimento di amore e di cum patior che da sempre contraddistingue l’umanità e la salva dalla rassegnazione.
Sembra emergere dalla lettura dell’opera una disarmante fiducia nei confronti degli esseri umani, molto più votati al bene che al male che è, socraticamente parlando, ignoranza del bene. Questa prospettiva è esplicitamente dichiarata da Camus che, con un audace gioco filologico e metanarrativo, fa riprendere a Rieux gli appunti di Tarrou sulla peste per usarli come bozza per il resoconto che svolgerà sul medesimo tema per dimostrare che:
«ci sono negli uomini più cose da ammirare che cose da disprezzare.».
Le ultime pagine dell’opera risultano sinistre e inquietanti: l’ipotesi che il bacillo della peste non muore mai, ma è sempre in agguato con la possibilità che si ripresenti in futuro, è sconfortante. Si può, tuttavia, intuire che tali affermazioni non sono da intendersi letteralmente ma che l’autore ci voglia suggerire qualcosa di più. Esistono malattie, vulnus, flagelli senza nome che non bisogna sottovalutare, non meno pericolosi del morbo della peste. Possiamo però opporci, ritrovare sempre la forza, se non per sconfiggere la “peste”, almeno di batterci con sguardo critico e lucidità analitica e, soprattutto, con quel sentimento di amore e di cum patior che da sempre contraddistingue l’umanità e la salva dalla rassegnazione.

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