TINGUELY A MILANO: LA BELLEZZA DELLE MACCHINE INUTILI

 TINGUELY A MILANO: LA BELLEZZA DELLE MACCHINE INUTILI




Fino al ‘900 pittura e scultura sono state caratterizzate dalla staticità:

l’immagine fissa un momento e una scena, sia essa l’apparire di un Cristo

Pantocratore bizantino o un Angelo Annunziante rinascimentale. La scoperta

della prospettiva creò uno spazio determinato, che inquadrava e fissava in

modo assoluto le figure. Chi iniziò a porsi la questione della rappresentazione

del movimento furono gli artisti barocchi: da Correggio, a Lanfranco, a

Rubens angeli, santi, anime ascendono al cielo nelle cupole delle chiese o

precipitano nelle tenebre infernali e c’è sicuramente l’intento di conferire

dinamicità alle scene, così come nella scultura di Bernini, dove Dafne sembra

quasi proseguire la sua trasformazione in albero di alloro, che Apollo non

riesce ad arrestare. Rimane il fatto che il quadro o l’affresco o la statua

continuano a congelare la rappresentazione. Nell’Ottocento anche

l’invenzione della fotografia contribuisce alla staticita’ dell’immagine, mentre

in pittura la stessa comincia a liberarsi dalla gabbia prospettica, a divenire

meno realistica. Intanto il fotografo Edweard Muybridge, non con intenti

artistici, considera la possibilità di documentare il movimento umano o

animale, utilizzando una serie consecutiva di apparecchi fotografici da usare

in sequenza. La grande svolta avviene il 28 dicembre 1895 quando, nella

sala di un caffè parigino, a iniziativa dei fratelli Lumière, alcune decine di

persone assistono all’uscita degli operai da una fabbrica e si spaventano per

un treno proveniente dallo schermo che sembra volerli proprio investire. Gli

artisti, dopo aver già superato con Van Gogh, Gauguin e altri la raffigurazione

della realtà naturale, da inizio ‘900 cominciano a porsi il tema del

superamento dell’immagine fissa per conferirle una dimensione anche

dinamica, temporale. I cubisti, a partire dal 1907, scompongono i volti e gli

oggetti, come se fossero visti contemporaneamente da diverse posizioni: la

percezione dinamica è affidata allo spettatore, che si muove davanti all’opera.

Inoltre, con la tecnica del collage, iniziano a inserire nel quadro elementi reali,

non dipinti da loro, come fogli di giornale, spartiti e diversi altri materiali.

Questa modalità fu poi utilizzata in modo ancora più intensivo da artisti come

Kurt Schwitters, e sarà molto importante per lo sviluppo futuro dell’arte. Nel

1909, sul quotidiano “Le Figaro” uscì il manifesto del Futurismo. I futuristi

detestavano il passato, amavano il progresso industriale e la continua

trasformazione all’insegna della velocità, quindi si ponevano il problema di

descrivere il dinamismo di una società che progrediva tumultuosamente. Così

Balla dipinge un cane con un gran numero di gambe e di code, a raffigurarne

il movimento, mentre Boccioni cerca di descrivere la crescita impetuosa e


continua di una moderna città (“La città che sale”) e gli aeropittori vorranno

dare allo spettatore l’impressione di essere su un aereo che vola a gran

velocità. Anche in scultura Boccioni cerca di mostrare il movimento, con lavori

come “Forme uniche della continuità nello spazio”. Intanto, in Francia, Marcel

Duchamp, spaziando tra rigore cubista e dinamismo futurista, realizza quadri

come “Nu descendant un escalier”, dove l’elemento dinamico si designa già

nel titolo. Il limite di questi tentativi di rappresentazione del movimento è nel

fatto che questi artisti, rivoluzionari nelle idee, sono ancorati agli strumenti

espressivi tradizionali: la pittura su tela, la scultura in bronzo o marmo. Chi

compie un passo avanti decisivo è, ancora, Duchamp. Abbandonando la

pittura, attribuisce statuto di opera d’arte a oggetti prelevati della realtà e

reinventa il tema del movimento, inserendo su uno sgabello una ruota di

bicicletta che può esser fatta girare. Successivamente creò i “Rotoreliefs”

dischi di cartoncino dipinti con segni astratti, fatti girare e anche filmati

(“Anemic cinema”), creando nella visione un susseguirsi di stimoli ottici. Altra

ricerca passa per l’americano Alexander Calder, che negli anni ’30 realizza

opere tridimensionali, prima mosse da un motore e poi, in complessi equilibri,

affidate agli spostamenti d’aria, ai passaggi dei visitatori (“Mobiles”). Si

interrogano sul movimento anche i costruttivisti russi Tatlin, Gabo, Pevsner,

mentre Kandinskij, Malevic, Mondrian raggiungono l’astrazione totale. Nel

dopoguerra, con Munari e l’Optical Art di Vasarely, Soto e diversi altri non

solo si intende creare davanti ai quadri una sensazione dinamica ma si

realizzano anche opere tridimensionali in movimento. Intanto, dopo la

prevalenza di Espressionismo Astratto e Informale, ritorna l’attenzione al

reale e riassume centralità la figura di Duchamp, attraverso l’inserimento

nelle opere di oggetti della vita quotidiana (Rauschenberg, Johns, Warhol). In

questa temperie si inserisce Jean Tinguely (Friburgo, Svizzera, 1925, Berna

1991) di cui è in corso una importante mostra all’Hangar Bicocca di Milano.

Figlio di operaio, frequenta la scuola di arte applicata di Basilea, dove gli

viene insegnato il lavoro di Schwitters e ammira l’opera di Klee, Tanguy, Mirò.

Le prime prove sono pittoriche ma non riesce a trovare una sua strada

espressiva. Si trasferisce a Parigi con la prima moglie Eva Aeppli, anch’essa

artista, Qui inizia a studiare Duchamp e Malevic e a pensare che, nel suo

lavoro, non vuole ancorarsi a canoni teorici rigidi e che un ruolo importante,

nel farsi dell’opera, debba essere attribuito al caso; che debba fare sculture

non fisse ma mobili che, sull’esempio delle “macchine inutili” di Bruno Munari,

non abbiano alcun scopo utilitaristico e, al contrario dell’esaltazione futurista

della modernità, creino nello spettatore una certa inquietudine, l’idea

chapliniana che ci possa sfuggire il loro controllo e ci si possano rivoltare

contro, non disgiunta, però, da una componente ludica. Inizia così a

svilupparsi il suo lavoro originale, che attinge anche a Calder, Duchamp,

Dada, Optical Art. Realizza strutture sempre più grandi e rumorose,

inserendo anche una componente sonora che deriva dalla musica concreta,

da Edgar Varése e, in qualche modo, anche dalle macchine intonarumori del


futurista Luigi Russolo. Le sue opere, dopo una iniziale attenzione a

composizioni geometriche che guardano a Calder e agli astrattisti, divengono

assemblaggi di oggetti dismessi, gettati nei rifiuti: pezzi di auto, strumenti

musicali, giocattoli rotti, barili per petrolio, rifiuti di plastica, elmetti, vecchi abiti

e pellicce, martelli e altri strumenti da ferramenta. E soprattutto ruote: di auto,

di biciclette, meccaniche. Collegate a vecchi motori, sono loro a trasmettere

movimento a questi grandi assemblaggi. La sensazione è di trovarsi di fronte

a macchine anarchiche, come se fossero sfuggite all’opera di chi usualmente

le costruisce perché adempiano a precise funzioni. L’idea di instabilità e

precarietà diventa palese in certe opere che sono destinate ad

autodistruggersi, come in una famosa performance a New York del 1960, in

cui un enorme assemblaggio di oggetti, compreso un pianoforte, esplose, si

incendiò, si segò, emise fumo, rumori fino a ridursi in un cumulo di ciarpame

fumante. L’enorme spazio delle Navate dell’Hangar Bicocca, dove si

costruivano locomotive, è adattissimo per contenere questi lavori. Alcuni, a

orari prefissati, si attivano, eseguendo i propri incongrui movimenti. Ad

esempio una macchina è composta di una specie di nastro trasportatore che

conduce bottiglie di vetro sotto un martello che le distrugge, riducendole ad

una montagna di cocci, rappresentando l’antitesi dei meccanismi industriali

volti a realizzare una sempre maggior quantità di prodotti per il mercato. I

lavori presenti in Hangar Bicocca sono una quarantina, molti di grandi

dimensioni, e coprono un periodo di attività che va dagli anni ’50 a inizi ’90.

La mostra termina con un’opera realizzata a due mani con l’artista Niki de

Saint Phalle, che fu sua compagna. Tinguely, nel suo mettere in questione il

concetto di autorialità, non solo realizzò opere che, per essere fruite,

richiedevano un diretto intervento da parte del pubblico, ma cercò la

collaborazione di altri colleghi. Aderì al movimento “Nouveau Réalisme”,

teorizzato dal critico d’arte francese Pierre Restany negli anni ’60 come

risposta alla Pop Art americana. In genere questi artisti ponevano la loro

attenzione non sugli oggetti di consumo ma sul risultato ultimo del consumo

stesso: lo scarto, il rottame, ciò che si getta. Trovò particolare corrispondenza

in Daniel Spoerri, che incollava su pannelli i resti dei pasti consumati nel

ristorante che aveva aperto. E, paradossalmente, in Yves Klein, che

sembrava seguire percorsi opposti al suo nel tentativo di smaterializzare

completamente l’opera. La più importante collaborazione l’ebbe però con la

sua compagna Niki de Saint Phalle (1930-2002) che, a sua volta, seguiva

percorsi eccentrici, come nei lavori in cui sparava con una carabina a

sacchetti di pieni di pittura posti sopra tele su cui il colore colava. La parte più

nota del suo lavoro furono però le sculture di grandi donne grasse, rotonde,

rivestite di specchietti, mosaici vivacemente colorati (“Nanà”). Tinguely

collaborò, con la sua abilità di meccanico, alla realizzazione di questi lavori, a

volte inserendovi anche suoi interventi diretti, come nella fontana davanti al

Centro Pompidou o nel “Giardino dei tarocchi” a Garavicchio in Toscana,

dove Niki realizzò il lavoro della sua vita: un grande parco di sculture ispirate


alle figure degli Arcani Maggiori. Il lavoro, così apparentemente differente, dei

due si mescola in modo magico, all’insegna di un confronto tra colore e non

colore, morbidezza e spigolosità, dinamismo e staticità. Ricordo che una

grande mostra su Niki de Saint Phalle si svolge attualmente al Mudec,

sempre a Milano. L’opera comune che conclude la mostra di Tinguely,

intitolata “Le champignon magique”, è la rappresentazione di un fungo

allucinogeno in cui, ancora una volta, si mescolano la passione di Niki per il

colore, la luce, e quella di Tinguely per il movimento e la ruggine, il gioco di

morbido e gioioso e acuto e spigoloso, il maschile e il femminile. Tra gli altri

lavori, all’insegna di una trasgressione ludica, la macchina “Meta-matique n.

10” dipinge meccanicamente, liberando così il pittore dalla fatica esecutiva e

permettendo allo spettatore di realizzare autonomamente la propria opera

d’arte. Uno dei tanti modi con cui si metteva in discussione la soggettività

dell’artista. Ogni visitatore, al prezzo di cinque euro, potrà realizzare un’opera

personalizzata da portarsi a casa. In altri lavori Tinguely recupera piccoli

giocattoli che si muovono premendo un bottone o pedale (“Baluba”), rende

omaggio a filosofi, sospende in alto i suoi assemblaggi negando il concetto di

piedistallo, progetta illuminazioni colorate per locali pubblici, assembla pezzi

di auto da corsa. Tutte le Navate dell’Hangar risuonano del rumore

intermittente delle macchine, facendo della mostra un’unica grande

installazione all’insegna della meccanica, del divertimento ma anche di un

sottile senso di angoscia. Come titolava la grande mostra a lui dedicata nel

1987 a Palazzo Grassi: “Una magia più forte della morte”.

Segnalo anche una sala a parte in cui si documenta, con disegni e filmati,

l’azione che Tinguely eseguì a Milano, davanti al Duomo, nel 1970, in

occasione del decimo anniversario del movimento “Nouveau Réalisme”: una

grande costruzione verticale fu realizzata coprendo la struttura con un telo

per non permettere alla gente di vederne la forma. La sera in cui il telo calò si

rivelò un fallo dorato di oltre dieci metri, con tanto di testicoli, che iniziò a

incendiarsi, emettere fuochi d’artificio, fino alla completa autodistruzione, nel

segno di una divertita provocazione.

I visitatori potranno anche vedere, nello spazio precedente alle navate,

l’interessante mostra di un’artista uzbeka, Saodat Ismailova. L’Uzbekistan si

segnala come un luogo di grandi prospettive per l’arte contemporanea.


SAURO SASSI

JEAN TINGUELY

PIRELLI HANGAR BICOCCA – VIA CHIESE 2 MILANO

FINO AL 02/02/2025 DA GIOVEDI’ A DOMENICA 10,30-20,30

INGRESSO GRATUITO CON PRENOTAZIONE SUL SITO


PER ARRIVARE: DALLA STAZIONE CENTRALE BUS N. 87 DIREZIONE

SESTO MARELLI

COL METRO: LINEA 5 LILLA DIREZIONE BIGNAMI, FERMATA PONALE

E POI 300 METRI A PIEDI



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