di Roberto Tortora
Eppure, in questo panorama naturale ed interiore tinteggiato in cieli cupi, mare d’alghe e uniforme grigiore che è dentro e fuori di noi, in questa desolata indagine sul posto che ci spetta nell’incontrollabile vertigine del tempo, uno spiraglio si apre per gettare intorno luce che scalda e riempie il respiro. E’ la terza composizione, il Poemetto dell’ulivo, un testo che merita di figurare nelle antologie dei nostri studenti tra le opere significative di questo scorcio di secolo che s’è appena aperto. Dalle levigate parole si sprigiona un’onda d’amore che sommessamente dilaga nel testo investendo tutta intera la vita del poeta. Il suo io più profondo si apre al dialogo e finalmente sceglie quale interlocutore una creaturina di quasi due anni cui consegnare, inestimabile lascito, la saldezza, la mitezza, la generosità della pianta di ulivo, quel patrimonio universale ed eterno che si apprende per autentica e protratta simbiosi con la terra, con le campagne della nostra terra, e diventa dono prezioso da custodire e trasmettere ai più cari. Non più rughe, qui, non più fronti tese e silenzi grevi come precipizi, ma suoni colorati al sorriso di un bambino: irriducibile, quel sorriso, come ineffabile era il riso dei nostri bamboli nella “Pentecoste” manzoniana. Adesso la forma del poemetto suggerisce una volontà di racconto che ha radici ataviche e nella dolce allitterazione delle liquide il tono sembra piegarsi in modalità elegiache che sole possono dire il candore della parola rivolta ad un bimbo:
Lo apro a ventaglio, scorro le pagine e le metto in controluce… Dunque, è vero. E’ carta filigranata: ampio spazio in tinta avorio sul quale il corpo del testo – il corpo dei versi – campeggia col giusto respiro. Ed è un altro grado di allontanamento.
Quando, infatti, si comincia a leggere i Poemetti elementari si trasloca, ci si estrania, per qualche tempo ci si allontana in un altrove appartato rispetto ai rumori rituali, alle ovvie banalità , alle ripetute ripetizioni che si ripetono nella vita di ogni giorno. Qui, in questi versi, nulla è già stato detto, nulla già ascoltato. Nessuna immagine è già stata vista. Tutto è aurorale e si presenta, fin dalla prima lettura, con la forza tagliente degli incontri che squarciano strati di muffa e puntano dritti al cuore delle domande ultime.
Domande, solo domande: perché non può esserci risposta, né consolazione alcuna all’implacabile quest del poeta – dell’uomo – che è trascinato e sbattuto, nel tempo, come da una bufera infernale e nel tempo vive e ama e si dispera sempre chiedendosi dove esattamente egli si collochi, e dove siano finiti i furori della giovinezza e che senso abbia quel finire, quel passare di tutte le cose/ le rose della vita.
Domande, solo domande: perché non può esserci risposta, né consolazione alcuna all’implacabile quest del poeta – dell’uomo – che è trascinato e sbattuto, nel tempo, come da una bufera infernale e nel tempo vive e ama e si dispera sempre chiedendosi dove esattamente egli si collochi, e dove siano finiti i furori della giovinezza e che senso abbia quel finire, quel passare di tutte le cose/ le rose della vita.
Domande inquietanti e foriere di una ricerca senza esito, se è vero che la dimensione temporale, rispetto a quella spaziale, appare assai più sfuggente, più liquida, forse più ostile.
E poi: a chi porle, quelle domande? I pastori kirghisi che avevano affascinato il Leopardi le rivolgevano alla luna, muta confidente. Qui è il lento corso di un fiume ad offrire al poeta lo spunto per interrogarsi sul significato della propria esistenza. La sinuosa quiete del corso d’acqua, il suo placido esistere prima e dopo di noi, il suo resistere al tempo breve degli uomini lo rendono simile a un totem millenario, oppure – in qualche maniera – ne fanno una fraterna espressione del divino e in ciascuna strofa il tono apparentemente assertivo si muta infine in interrogazione come a dichiarare, ad un tempo, lo smarrimento di ogni certezza e l’ansia febbrile di afferrarne almeno un lembo, un frammento di sapienza che aiuti a ereditare la quiete: ancora mi persuade/la pazienza delle tue anse?
E poi: a chi porle, quelle domande? I pastori kirghisi che avevano affascinato il Leopardi le rivolgevano alla luna, muta confidente. Qui è il lento corso di un fiume ad offrire al poeta lo spunto per interrogarsi sul significato della propria esistenza. La sinuosa quiete del corso d’acqua, il suo placido esistere prima e dopo di noi, il suo resistere al tempo breve degli uomini lo rendono simile a un totem millenario, oppure – in qualche maniera – ne fanno una fraterna espressione del divino e in ciascuna strofa il tono apparentemente assertivo si muta infine in interrogazione come a dichiarare, ad un tempo, lo smarrimento di ogni certezza e l’ansia febbrile di afferrarne almeno un lembo, un frammento di sapienza che aiuti a ereditare la quiete: ancora mi persuade/la pazienza delle tue anse?
L’uomo cerca il proprio specchio nella natura: serpeggia nel Poemetto del ritrovamento del fiume un sospeso desiderio di immersione panica che non ha nulla a che vedere con l’esibizione di una rinnovata sensualità e dichiara invece l’agognato ritorno alle radici che ci precedono e ci sopravvivono, radici che sole esistono in seno alla Grande Madre. Così, in una compiuta fusione di metonimia e sinestesia: Può tornare il fiume/a scorrermi nelle iridi,/può riprestami/il suo sapore d’acqua/quando a colme mani/bevevo il suo freddo/il suo verde profondo?
Parafrasando l’Ecclesiaste, c’è un tempo del moto e un tempo della sosta. Per Di Biasio, tempo della tregua. C’è un tempo per aderire alla vita, per aggredirla, per assaporarla, grazie agli incontri, ai progetti, alle partenze; e c’è un tempo per la tregua, poderoso cronotopo (come il mare, come la notte), dimensione agognata anche questa e benedetta dalla flebile epifania della luna. E’ il tempo in cui si tirano le somme e si tenta un primo bilancio di ciò che è stato, degli eroici furori che hanno animato la giovinezza e popolato d’amore le strade senza che, tuttavia, quelle irrisolte strade mettessero capo ad una meta stabile.
Parafrasando l’Ecclesiaste, c’è un tempo del moto e un tempo della sosta. Per Di Biasio, tempo della tregua. C’è un tempo per aderire alla vita, per aggredirla, per assaporarla, grazie agli incontri, ai progetti, alle partenze; e c’è un tempo per la tregua, poderoso cronotopo (come il mare, come la notte), dimensione agognata anche questa e benedetta dalla flebile epifania della luna. E’ il tempo in cui si tirano le somme e si tenta un primo bilancio di ciò che è stato, degli eroici furori che hanno animato la giovinezza e popolato d’amore le strade senza che, tuttavia, quelle irrisolte strade mettessero capo ad una meta stabile.
Certo, resta la memoria. Ma è la montaliana “memoria che si sfolla”, è sorella meno dolce di quanto una blanda iconografia voglia farci credere: dal fondo nero, notturno, dei ricordi, emergono – delle vivide passioni che sono state – solo corrose parvenze, l’abrasa memoria delle cose/ delle rose della vita. Oppure può accadere che in un istante, imprevista ed improvvisa, tanta parte del passato torni a travolgerci con la forza di un incendio, ma è ardore di breve durata, è favilla che si stacca dal ceppo, sale nell’aria e presto si fa cenere.
Questo continuo investigare le ragioni di una vita non può eludere la tappa del riconoscimento, e nei Poemetti lo specchio è il mare (giacché, come già in Melville, specchiandoci nell’acqua cerchiamo “l’immagine del fantasma inafferrabile della vita”). E non a caso è un aspro mare, quello che consegna ancora/a noi/i suoi morti di un giorno, dal momento che a inquinare, a inquietare, il presente - come se non bastassero gli interrogativi di sempre - ci si mette anche l’uomo con le sue vacuità .
Un tempo d’alghe c’incalza.
Quest’opera va letta come si legge la poesia: reclama silenzio e concentrazione, perché concentrata è la riflessione e ancor più contratto è il linguaggio. Meglio, per ora, non insistere sul significato, sul contenuto, sul messaggio. Come ricordavano appena qualche anno fa Berardinelli ed Enzensberger, la poesia vive di vita autonoma, non deve per forza essere spiegata: occorre invece leggerla, possibilmente ad alta voce, e poi rileggerla per coglierne l’accorta successione di ritmi, accenti e suoni, per imbattersi in immagini che solo il calibrato (poetico) accostamento di parole riesce a creare.
Questo continuo investigare le ragioni di una vita non può eludere la tappa del riconoscimento, e nei Poemetti lo specchio è il mare (giacché, come già in Melville, specchiandoci nell’acqua cerchiamo “l’immagine del fantasma inafferrabile della vita”). E non a caso è un aspro mare, quello che consegna ancora/a noi/i suoi morti di un giorno, dal momento che a inquinare, a inquietare, il presente - come se non bastassero gli interrogativi di sempre - ci si mette anche l’uomo con le sue vacuità .
Un tempo d’alghe c’incalza.
Quest’opera va letta come si legge la poesia: reclama silenzio e concentrazione, perché concentrata è la riflessione e ancor più contratto è il linguaggio. Meglio, per ora, non insistere sul significato, sul contenuto, sul messaggio. Come ricordavano appena qualche anno fa Berardinelli ed Enzensberger, la poesia vive di vita autonoma, non deve per forza essere spiegata: occorre invece leggerla, possibilmente ad alta voce, e poi rileggerla per coglierne l’accorta successione di ritmi, accenti e suoni, per imbattersi in immagini che solo il calibrato (poetico) accostamento di parole riesce a creare.
Ognuno dei sette poemetti che compongono la raccolta è suddiviso in tre tempi di diverso respiro. Il poeta ha rinunciato alla rima, e propriamente antilirica appare questa poesia che nelle parole incide ritagli di realtà quali rapide folgorazioni (come nell’ossimoro: esili tenaci fili/i miei giorni; o grazie alla sostantivizzazione dell’aggettivo, seguita dall’omoteleuto: e nella remotezza del cielo/si muta in nero di pece/la luce dei voli). Una lingua non cantabile, spesso indurita dagli scontri consonantici e che trova una sua privata musicalità nel dispiegarsi di un ampio repertorio di scelte metriche. Una lingua capace di sorprendere se forza le consuetudini sintattiche (l’aggettivo interpolato tra due sostantivi: E’ guizzo/che ferisce l’occhio e discopre/inquietudini lontane latitudini; il verbo che inverte l’ordinaria transitività : Il sole e l’azzurro/non disperdono dentro/l’ossessione delle acque).
Lingua, allora, integralmente contemporanea eppure priva delle connotazioni della modernità , se è vero che Rodolfo Di Biasio ha rigorosamente escluso dal proprio repertorio lessicale gli specialismi e i tecnicismi e la soverchia gergalità che ci assedia e ci annoia nell’ipertrofica comunicazione mediatica. Sicché, quando il poeta vuol scolpire in due versi gli insensati accadimenti di certi nostri giorni, Un tempo cupo/il cupo tempo delle rottamazioni, dopo la potente anadiplosi quel termine – rottamazioni – spicca, vero hapax legomenon, per inaudita violenza e grida l’assurdità di una condizione che ci riguarda da vicino.
Eppure, in questo panorama naturale ed interiore tinteggiato in cieli cupi, mare d’alghe e uniforme grigiore che è dentro e fuori di noi, in questa desolata indagine sul posto che ci spetta nell’incontrollabile vertigine del tempo, uno spiraglio si apre per gettare intorno luce che scalda e riempie il respiro. E’ la terza composizione, il Poemetto dell’ulivo, un testo che merita di figurare nelle antologie dei nostri studenti tra le opere significative di questo scorcio di secolo che s’è appena aperto. Dalle levigate parole si sprigiona un’onda d’amore che sommessamente dilaga nel testo investendo tutta intera la vita del poeta. Il suo io più profondo si apre al dialogo e finalmente sceglie quale interlocutore una creaturina di quasi due anni cui consegnare, inestimabile lascito, la saldezza, la mitezza, la generosità della pianta di ulivo, quel patrimonio universale ed eterno che si apprende per autentica e protratta simbiosi con la terra, con le campagne della nostra terra, e diventa dono prezioso da custodire e trasmettere ai più cari. Non più rughe, qui, non più fronti tese e silenzi grevi come precipizi, ma suoni colorati al sorriso di un bambino: irriducibile, quel sorriso, come ineffabile era il riso dei nostri bamboli nella “Pentecoste” manzoniana. Adesso la forma del poemetto suggerisce una volontà di racconto che ha radici ataviche e nella dolce allitterazione delle liquide il tono sembra piegarsi in modalità elegiache che sole possono dire il candore della parola rivolta ad un bimbo:
Ti dico anche ad uno ad uno
il loro luogo per le colline
là dove assorbono
l’espansione delle albe e dei tramonti
Quella luce
mi è dentro e non smuore
Rodolfo Di Biasio, Poemetti elementari, Il Labirinto, Roma, 2008, euro 8,00
RODOLFO DI BIASIO, nato nel 1937 a Ventosa (Latina), vive a Formia. E’ autore di numerosi libri di versi, racconti e di un romanzo. L’opera più recente è l’autoantologia poetica Altre contingenze.
il loro luogo per le colline
là dove assorbono
l’espansione delle albe e dei tramonti
Quella luce
mi è dentro e non smuore
Rodolfo Di Biasio, Poemetti elementari, Il Labirinto, Roma, 2008, euro 8,00
RODOLFO DI BIASIO, nato nel 1937 a Ventosa (Latina), vive a Formia. E’ autore di numerosi libri di versi, racconti e di un romanzo. L’opera più recente è l’autoantologia poetica Altre contingenze.
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