Battisti, ultimo round: perché il Brasile nega l’estradizione

di Valeria Del Forno


Dopo le polemiche delle diplomazie, il Supremo Tribunale Federale brasiliano è chiamato in questi giorni ad esaminare la richiesta di estradizione di Cesare Battisti. Per conoscere il verdetto bisognerà aspettare il prossimo mese. Una vicenda dalle mille complicazioni: dalle famiglie delle vittime, ai rapporti con la Francia, a quelli con il Brasile.


Tappa cruciale per il caso Battisti. Il Supremo Tribunale Federale brasiliano (l'equivalente della nostra Cassazione) si è riunito da lunedì per decidere se il processo di estradizione in Italia nei confronti degli ex leader dei Pac (Proletari armati per il Comunismo) sia o meno da archiviare, così come ha chiesto il procuratore generale della Repubblica brasiliana Antonio Fernando de Souza, secondo cui l'ex terrorista non sarebbe più estradabile perché ha ottenuto dal ministro della giustizia lo status di rifugiato politico.
«E’ tradizione del Brasile considerare di concedere lo status di rifugiato politico ogni volta che riteniamo che esista un fondato timore di persecuzione politica contro un cittadino», ha detto il segretario del ministero della giustizia a Brasilia. Battisti, per il quale l’Italia ha chiesto l’estradizione, è stato condannato all'ergastolo nel nostro Paese per 4 omicidi commessi tra il 1977 e il 1979.

Ma cosa ha spinto un paese come il Brasile ad assumere una posizione così netta, confermata anche dal suo Presidente Lula, rischiando di compromettere i rapporti con un paese come l'Italia?

Ricordiamo che il Brasile, collaborò in maniera eccellente con il Giudice Istruttore Giovanni Falcone nella vicenda dell'arresto e dell’estradizione di Tommaso Buscetta tanto è vero che Walter Franganiello Majerovitch, il magistrato brasiliano che si occupò del caso, è oggi presidente dell'Istituto Brasiliano Giovanni Falcone.

Oggi qualcosa è cambiato tanto da aver spinto il ministro brasiliano della Giustizia ad esprimersi in termini così duri, parlando di parzialità del sistema giudiziario italiano: « Il contesto nel quale sono occorsi i reati di omicidio imputati al ricorrente e le condizioni nelle quali si sono svolti i suoi processi, la sua potenziale impossibilità di ampia difesa di fronte alla radicalizzazione della situazione politica in Italia, come minimo generano profondi dubbi sul fatto se il ricorrente abbia avuto diritto al dovuto processo legale».

Questo caso, che si trascina da diverso tempo, ripropone una problematica conosciuta da decenni e che ha l’epicentro nei singolari rapporti che l’Italia ha con l’America Latina. Si potrebbero citare diversi episodi ma è utile soffermarsi su tre, uno di natura economica e gli altri due di matrice giudiziaria.

Nel 1986 il Governo Italiano firma un patto commerciale e politico con l’Argentina. Questo accordo prevedeva un intenso gemellaggio con la giovane democrazia latinoamericana ed una partership industriale basata sul "know-how" delle imprese di casa nostra. L’allora presidente argentino Raul Alfonsin dichiarò entusiasta: "Siamo diventati la 22a regione italiana". Ed era vero, se le relazioni si fossero basate sulla serietà, anche con enormi vantaggi per noi specie da un Paese così ricco di materie prime e dove l’italianità, anche per la componente etnica, è più di un valore folcloristico.
Il progetto invece naufragò immediatamente perché da noi venne interpretato come l’ennesima occasione per piazzare manufatti non propriamente di prima qualità ad un Paese sudamericano. E la palla passò alla Germania e alla Spagna.

Quindici anni fa l’estradizione di Priebke, ex ufficiale delle SS coinvolto la strage delle Fosse Ardeatine, dall’Argentina venne acclamata come una vittoria del nostro corpo diplomatico, invece nascondeva un macchia: la totale decadenza di moltissimi processi fatti nei confronti dei crimini della nefasta dittatura argentina che avevano colpito moltissimi italiani. Per anni calò il silenzio e solo nel 2005 il Tribunale di Roma ha condannato all’ergastolo i generali Videla, Massera e Gualtieri (ovviamente contumaci) colpevoli per la sparizione di nostri connazionali. Insomma, una vittoria mascherata, che però sarebbe risultata vera se solo si fossero soppressi molti stereotipi che tuttora sopravvivono nei confronti di un continente che continuiamo a considerare "bananero" ma che invece già rappresenta una potenza economica considerevole.

A dare un contributo di non poco conto a tale risentimento, vi è anche la vicenda Telecom. Leggendo quanto segue capirete molte cose che vi sono passate sotto al naso.
In Italia è forse passato inosservato e pochi ricorderanno che in tale vicenda vi furono due figure Marco Bernardini e Luciane Araujo che, con le loro dichiarazioni, dipinsero un Brasile e le sue istituzioni, come corrotte o al servizio di Telecom Italia, con un processo sommario mediatico e giudiziario, senza precedenti.

Le parole più gravi furono quelle di Luciane Araujo, traduttrice al servizio di Bernardini, investigatore privato, fornitore fisso della Security di Telecom diretta da Giuliano Tavaroli. La donna riferì alla Procura, anzi ai carabinieri delegati, di aver tradotto conversazioni in cui si parlava di tangenti politiche ed alla polizia locale brasiliana. Non solo: in un' intervista (pare con un compenso di 50mila dollari pagati dall'avvocato Nelio Machado, avvocato del banchiere Daniel Dantas) in Brasile fece addirittura il nome del presidente brasiliano Lula tra la lista dei corrotti. Questo per rafforzare la tesi tanto cara a Daniel Dantas, secondo il quale vi sarebbe stato in Telecom Italia un meccanismo di pagamenti di tangenti a politici brasiliani. Tutto con l’intento di mettere fuori il banchiere dal business del settore della telefonia.

Nonostante delle prove di ferro che sconfessano la traduttrice, la Giustizia Italiana ha arrestato con facilità persone sulla base di tali dichiarazioni, senza provvedere all'apertura di un procedimento penale per calunnia o i dovuti approfondimenti investigativi.
Forse le Autorità Brasiliane si sarebbero aspettate da parte della Giustizia Italiana un trattamento diverso. In altri termini il Governo Brasiliano, trattato come paese marginale dalla nostra Giustizia, ha provato sulla sua pelle come essa funziona, creando una profonda sfiducia in essa.

Allora perché sorprendersi se circa cinquecento intellettuali brasiliani hanno firmato un manifesto a sostegno di Cesare Battisti (tra di loro anche l'architetto Niemeyer e il drammaturgo Boal) e in Brasile si crede ai legali di Battisti - lo proclamano innocente, accusando i quattro suoi ''ex compagni'' condannati insieme a lui e definendo "esagerata" la reazione dell'Italia alla decisione di Brasilia di riconoscergli lo status di rifugiato -, molto più che allo Stato Italiano?

Si dovrà attendere circa un mese prima di una sentenza definitiva. Dalle famiglie delle vittime, dalla Farnesina e dal Palazzo Chigi si chiede giustizia e si ha fiducia.
Non si può quindi far altro che aspettare il giudizio della Corte dove, peraltro, il Governo Italiano è ben rappresentato. Il magistrato che si occupa del caso, Cezar Peluso, ha, infatti, stabilito nel frattempo che l'Italia ha il diritto di presenziare con un avvocato nel processo e ha chiesto al guardasigilli, Tarso Genro, di inoltrare la copia integrale del rapporto del Comitato nazionale per i rifugiati (Conare) che rifiutò, a fine novembre, la richiesta di asilo di Battisti. L’ex leader dei Pac dovrà anche rispondere di possesso di documenti falsi, reato che in Brasile è punibile con sei anni di carcere. E’ da aggiungere che potrebbe risultare non più estradabile perché ha ottenuto dal ministro della Giustizia carioca lo status di rifugiato politico.

Ricordiamo che in Brasile Battisti è arrivato dopo aver fatto perdere le sue tracce il 22 agosto del 2004 lasciando la Francia dove, evaso da un carcere italiano, si era rifugiato nel 1980. La settimana scorsa, l’ex leader dei Pac ha raccontato in un'intervista al settimanale brasiliano Istoé che la sua fuga in sud America fu aiutata dai servizi segreti francesi.
Perché così tanti rifugiati politici in Francia? Battisti non è di certo il primo.
Il punto è che i francesi hanno un punto di vista diverso dal nostro sugli “anni di piombo”, la vedono come un’epoca da chiudere con una sorta di “perdonismo”.
In Italia si sta cercando di superare questo nodo con molta fatica. Col tempo, forse, ci si riuscirà anche grazie alla presa di coscienza del nostro Governo sul fatto che alcune cose devono essere affrontate ad ogni costo.

Quel che il caso Battisti più di ogni altra cosa insegna è proprio che l’Italia deve riconciliarsi con sé stessa e con la sua storia, cercando la verità dei fatti occorsi negli ancora bui “anni di piombo”. La ferita aperta, e ancora infetta, deve cicatrizzarsi. Questo è il compito di chi sinceramente lotta per la giustizia sociale e per la democrazia. In Italia, in Brasile e nel mondo.

Post a Comment

Nuova Vecchia