di Roberto Tortora
Fino a qualche anno fa ci siamo cullati sugli allori. Sicuri di essere il Paese dove si mangia bene e dove la dieta mediterranea è di casa, abbiamo criticato frettolosamente la abitudini alimentari dei popoli anglosassoni, in particolare degli americani, notoriamente in soprappeso.
Oggi i dati del Ministero della Salute e dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ci inducono ad essere più cauti nell’attribuirci meriti che forse non possediamo più.
In Italia, il 24% dei ragazzi tra i 6 e i 17 anni è a rischio obesità. Secondo l’OMS si tratta di un rischio di epidemia. Oltre i 18 anni il 34,2% degli Italiani è in soprappeso, il 9,8% è obeso. E’ vero che il fenomeno è di portata mondiale ed ha a che fare con lo stile di vita tipico delle società fortemente avanzate, ma - ed è questo a sorprenderci - in Italia la preoccupazione è più viva che all’estero. Dai dati diffusi risulta che i bambini italiani sono i più obesi d’Europa.
All’origine del fenomeno, come si diceva, lo squilibrio tra l’altissima quantità di grassi e zuccheri ingeriti e lo scarsissimo dispendio energetico, un mix di pericolose abitudini assai diffuse proprio tra i giovani e i giovanissimi.
Inoltre, i problemi sanitari legati al soprappeso hanno immediati riflessi di carattere economico, considerato il notevole aumento della popolazione che ricorrerà nei prossimi anni alle cure mediche.
Da qui una programmazione di interventi mirati che intendono porre un argine a questo fenomeno. Passato ormai il tempo in cui si credeva erroneamente che la questione andasse affrontata con interventi isolati e specifici, per così dire settoriali, si guarda ora a strategie globali a largo spettro, cioè ad una strategia coerente, intergovernativa, internazionale basata sui cambiamenti sociali a breve, medio e lungo periodo, che possa coinvolgere contemporaneamente più figure professionali, genitori, nonni, pediatri, mense scolastiche, più momenti della vita degli adolescenti e diverse modalità operative.
Quel che è certo è che bisogna partire dalla scuola, cioè dall’educazione alimentare, in età quanto più possibile precoce. Pare infatti che il target migliore sia proprio quello della scuola primaria, quando i bambini e i loro genitori risultano più sensibili alle questioni relative alla salute e dunque maggiormente disposti ad apprendere un sano stile di vita.
Il ruolo delle mense scolastiche risulta decisivo in questo contesto perché attraverso esse i bambini, e poi i ragazzi delle scuole medie, acquisiscono correte abitudini alimentari e imparano ad apprezzare sapori che non producono danni alla salute. La tendenza più recente e più significativa da questo punto di vista è quella che privilegia prodotti biologici per far sì che il momento della refezione si coniughi con un vero e proprio progetto didattico portato avanti da più docenti con l’entusiasmo degli alunni. L’esperienza delle biomense è ancora in progress, concentrata soprattutto nel nord Italia: Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna, Toscana, Marche (mentre la quota più elevata di persone obese e in soprappeso si rileva proprio nel Sud e nelle Isole).Ma tutto lascia presagire rapidi incrementi delle attività legate alla preparazione e alla distribuzione dei pasti nelle scuole e una più capillare diffusione sul territorio nazionale, anche perché il fatturato complessivo si aggira intorno ai due miliardi di euro. Sotto il profilo propriamente educativo, poi, va ricordato che questo tipo di esperienza tende a coinvolge in maniera “sensoriale”, anche fattori storici, geologici, sociali del territorio. In altre parole, un programma di educazione alimentare per essere efficace e per produrre effetti di lungo periodo deve mirare anche alla dimensione culturale ed etica, locale e globale. Gli obiettivi principali sono: promuovere un’agricoltura nel rispetto dell’ambiente e della salute; conoscere meglio e acquistare soprattutto prodotti locali; valorizzare e formare cuochi; educare gli studenti al gusto.
Fin qui il ruolo di Scuole e Amministrazioni locali. Ma il vero nodo da affrontare, sempre in tema di cultura alimentare e di abitudini legate anche a bisogni indotti, resta quello della pubblicità. Si tratta di un nemico difficile da sconfiggere a causa della capacità persuasiva degli spot sui telespettatori più indifesi. A livello governativo, perciò, sarebbe necessaria perlomeno una regolamentazione degli spot delle industrie alimentari che passano durante le trasmissioni per l’infanzia.
Fino a qualche anno fa ci siamo cullati sugli allori. Sicuri di essere il Paese dove si mangia bene e dove la dieta mediterranea è di casa, abbiamo criticato frettolosamente la abitudini alimentari dei popoli anglosassoni, in particolare degli americani, notoriamente in soprappeso.
Oggi i dati del Ministero della Salute e dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ci inducono ad essere più cauti nell’attribuirci meriti che forse non possediamo più.
In Italia, il 24% dei ragazzi tra i 6 e i 17 anni è a rischio obesità. Secondo l’OMS si tratta di un rischio di epidemia. Oltre i 18 anni il 34,2% degli Italiani è in soprappeso, il 9,8% è obeso. E’ vero che il fenomeno è di portata mondiale ed ha a che fare con lo stile di vita tipico delle società fortemente avanzate, ma - ed è questo a sorprenderci - in Italia la preoccupazione è più viva che all’estero. Dai dati diffusi risulta che i bambini italiani sono i più obesi d’Europa.
All’origine del fenomeno, come si diceva, lo squilibrio tra l’altissima quantità di grassi e zuccheri ingeriti e lo scarsissimo dispendio energetico, un mix di pericolose abitudini assai diffuse proprio tra i giovani e i giovanissimi.
Inoltre, i problemi sanitari legati al soprappeso hanno immediati riflessi di carattere economico, considerato il notevole aumento della popolazione che ricorrerà nei prossimi anni alle cure mediche.
Da qui una programmazione di interventi mirati che intendono porre un argine a questo fenomeno. Passato ormai il tempo in cui si credeva erroneamente che la questione andasse affrontata con interventi isolati e specifici, per così dire settoriali, si guarda ora a strategie globali a largo spettro, cioè ad una strategia coerente, intergovernativa, internazionale basata sui cambiamenti sociali a breve, medio e lungo periodo, che possa coinvolgere contemporaneamente più figure professionali, genitori, nonni, pediatri, mense scolastiche, più momenti della vita degli adolescenti e diverse modalità operative.
Quel che è certo è che bisogna partire dalla scuola, cioè dall’educazione alimentare, in età quanto più possibile precoce. Pare infatti che il target migliore sia proprio quello della scuola primaria, quando i bambini e i loro genitori risultano più sensibili alle questioni relative alla salute e dunque maggiormente disposti ad apprendere un sano stile di vita.
Il ruolo delle mense scolastiche risulta decisivo in questo contesto perché attraverso esse i bambini, e poi i ragazzi delle scuole medie, acquisiscono correte abitudini alimentari e imparano ad apprezzare sapori che non producono danni alla salute. La tendenza più recente e più significativa da questo punto di vista è quella che privilegia prodotti biologici per far sì che il momento della refezione si coniughi con un vero e proprio progetto didattico portato avanti da più docenti con l’entusiasmo degli alunni. L’esperienza delle biomense è ancora in progress, concentrata soprattutto nel nord Italia: Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna, Toscana, Marche (mentre la quota più elevata di persone obese e in soprappeso si rileva proprio nel Sud e nelle Isole).Ma tutto lascia presagire rapidi incrementi delle attività legate alla preparazione e alla distribuzione dei pasti nelle scuole e una più capillare diffusione sul territorio nazionale, anche perché il fatturato complessivo si aggira intorno ai due miliardi di euro. Sotto il profilo propriamente educativo, poi, va ricordato che questo tipo di esperienza tende a coinvolge in maniera “sensoriale”, anche fattori storici, geologici, sociali del territorio. In altre parole, un programma di educazione alimentare per essere efficace e per produrre effetti di lungo periodo deve mirare anche alla dimensione culturale ed etica, locale e globale. Gli obiettivi principali sono: promuovere un’agricoltura nel rispetto dell’ambiente e della salute; conoscere meglio e acquistare soprattutto prodotti locali; valorizzare e formare cuochi; educare gli studenti al gusto.
Fin qui il ruolo di Scuole e Amministrazioni locali. Ma il vero nodo da affrontare, sempre in tema di cultura alimentare e di abitudini legate anche a bisogni indotti, resta quello della pubblicità. Si tratta di un nemico difficile da sconfiggere a causa della capacità persuasiva degli spot sui telespettatori più indifesi. A livello governativo, perciò, sarebbe necessaria perlomeno una regolamentazione degli spot delle industrie alimentari che passano durante le trasmissioni per l’infanzia.
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