Natty Patanè
Ciò che rimane, talvolta, è poco più che un ricordo ed un rametto di gelsomino. Forse.
Ciò che rimane, talvolta, è poco più che un ricordo ed un rametto di gelsomino. Forse.
Vera si guardava allo specchio.
Un sigaretta le pendeva morbida dalle labbra dipinte di rosso acceso, di tanto in tanto strizzava gli occhi infastiditi da rade volute di fumo e sembrava quasi che si concentrasse per ritrovare i tratti delicati che le avevano fatto meritare il suo soprannome, lo sussurrò piano – a Bambula -, sollevò con le mani tenute a coppa i seni fasciati dalla vestaglietta stampata a fiori come tante volte aveva fatto per i suoi clienti. Puntuale la assalì il moto d’odio che la scuoteva ogni volta che ripensava ai peggiori, quelli sporchi, i violenti, quelli che le chiedevano più di quello che la sua immaginazione non certo alle prime armi le permetteva di ipotizzare.
Ma quello era stato un tempo ormai lontano, chiuso dalla serena rassegnazione di “Turi u munnizzaru” che sprofondato nel suo letto dal damasco bordeaux le diceva:
- Vera, non è cchiu cosa –
e in quelle poche parole aveva realizzato la fine di un’epoca, la sua.
Spostò una ciocca dei suoi capelli biondo inverosimile e trascinò fuori dalla stanza le sue ciabatte.
Spalancò rapida la porta che dava nel cortile e rimase un po’ li a guardare i vasi di coccio ricolmi di piante, quasi a contarli uno ad uno.
Il sole del giorno di fine estate teneva lontani i desideri variopinti delle tante bella di notte che puntualmente ogni anno le infestavano, gradite, la terra. Oltre la linea ferroviaria brillavano le increspature del mare settembrino, a parziale ostacolo alla vista l’unico palazzo recente turbava la decadenza del vicolo che l’aveva ospitata negli ultimi quaranta anni. Le sembrò che fosse passato solo qualche giorno da quando dal cancello veniva fuori quel ragazzino coi lunghi capelli chiari sulla sua vespa, Sebastiano, che di tanto in tanto le veniva a fare qualche attimo di compagnia. Le era sembrato che qualcosa di non terreno le regalava un briciolo di affetto gratuito attraverso quelle brevi chiacchierate con il giovane amico. Le sembrava qualche giorno ed erano già almeno dieci anni. Ricordò che lasciava sempre la porta di casa spalancata per non far pensare a nessuno che Sebastiano cercasse da lei uno squallido passaporto genitale, anche se sapeva che non era facile immaginare i loro discorsi seri, il loro ultimo colloquio prima che Sebastiano partisse.
- Vera non capisco più niente! Cosa voglio? Cosa cerco? –
- Non lo so cosa cerchi, io, ma so che non lo puoi trovare qua, vattene Sebastiano non è qua la tua fortuna –
In fondo Vera pensava di sapere cosa stesse cercando Sebastiano ma lei, poca scuola e una vita da puttana, sapeva che non sarebbe servito dargli risposte, un po’ forse non si sentiva all’altezza di dar consigli un po’ era convinta che l’unica cosa giusta per lui fosse andar via. Un pomeriggio di ottobre, dallo scure socchiuso della finestra lo aveva visto avvicinarsi, con il suo zaino sulle spalle veniva a salutarla, lei finse di non essere in casa per paura di crollare, dopo anni di emozioni finte nel vuoto dell’anima aveva paura di lasciarsi andare all’emozione di quel tardivo affetto materno. Si vergognava un po’ di non provare lo stesso sentimento per la nipote Carmela che da quando viveva in Germania si faceva chiamare Brigitte. Lo aveva visto allontanarsi sereno, forse convinto di tornare, più probabilmente complice di quel suo silente affetto.
Staccò un rametto dal gelsomino fiorito, lo poggiò nella scollatura e tornò in casa a preparare un caffè. Mentre aspettava il borbottio tornò allo specchio e si stupì di trovarvi una vecchia dagli occhi inumiditi, riportò le mani al seno e cominciò a cantare: - tu mi fai girar, tu mi fai girar, come fossi una bambola! -
Ma quello era stato un tempo ormai lontano, chiuso dalla serena rassegnazione di “Turi u munnizzaru” che sprofondato nel suo letto dal damasco bordeaux le diceva:
- Vera, non è cchiu cosa –
e in quelle poche parole aveva realizzato la fine di un’epoca, la sua.
Spostò una ciocca dei suoi capelli biondo inverosimile e trascinò fuori dalla stanza le sue ciabatte.
Spalancò rapida la porta che dava nel cortile e rimase un po’ li a guardare i vasi di coccio ricolmi di piante, quasi a contarli uno ad uno.
Il sole del giorno di fine estate teneva lontani i desideri variopinti delle tante bella di notte che puntualmente ogni anno le infestavano, gradite, la terra. Oltre la linea ferroviaria brillavano le increspature del mare settembrino, a parziale ostacolo alla vista l’unico palazzo recente turbava la decadenza del vicolo che l’aveva ospitata negli ultimi quaranta anni. Le sembrò che fosse passato solo qualche giorno da quando dal cancello veniva fuori quel ragazzino coi lunghi capelli chiari sulla sua vespa, Sebastiano, che di tanto in tanto le veniva a fare qualche attimo di compagnia. Le era sembrato che qualcosa di non terreno le regalava un briciolo di affetto gratuito attraverso quelle brevi chiacchierate con il giovane amico. Le sembrava qualche giorno ed erano già almeno dieci anni. Ricordò che lasciava sempre la porta di casa spalancata per non far pensare a nessuno che Sebastiano cercasse da lei uno squallido passaporto genitale, anche se sapeva che non era facile immaginare i loro discorsi seri, il loro ultimo colloquio prima che Sebastiano partisse.
- Vera non capisco più niente! Cosa voglio? Cosa cerco? –
- Non lo so cosa cerchi, io, ma so che non lo puoi trovare qua, vattene Sebastiano non è qua la tua fortuna –
In fondo Vera pensava di sapere cosa stesse cercando Sebastiano ma lei, poca scuola e una vita da puttana, sapeva che non sarebbe servito dargli risposte, un po’ forse non si sentiva all’altezza di dar consigli un po’ era convinta che l’unica cosa giusta per lui fosse andar via. Un pomeriggio di ottobre, dallo scure socchiuso della finestra lo aveva visto avvicinarsi, con il suo zaino sulle spalle veniva a salutarla, lei finse di non essere in casa per paura di crollare, dopo anni di emozioni finte nel vuoto dell’anima aveva paura di lasciarsi andare all’emozione di quel tardivo affetto materno. Si vergognava un po’ di non provare lo stesso sentimento per la nipote Carmela che da quando viveva in Germania si faceva chiamare Brigitte. Lo aveva visto allontanarsi sereno, forse convinto di tornare, più probabilmente complice di quel suo silente affetto.
Staccò un rametto dal gelsomino fiorito, lo poggiò nella scollatura e tornò in casa a preparare un caffè. Mentre aspettava il borbottio tornò allo specchio e si stupì di trovarvi una vecchia dagli occhi inumiditi, riportò le mani al seno e cominciò a cantare: - tu mi fai girar, tu mi fai girar, come fossi una bambola! -
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