La poesia di Barbara Carle. Natura morta in terza persona



di Roberto Tortora


Sulle prime sembra di imbattersi in una sequenza di sciarade.
Toccare quello che resta, di Barbara Carle, ĆØ costituito da 50 poesie, in italiano e in inglese, che recano per titolo un numero arabo. Solo un numero, per ora. CosƬ da lasciare intatto il senso di mistero di questi testi che chiamano il lettore a intraprendere un curioso viaggio di scoperta. Anzi, di ri-scoperta dell’universo materiale che ci circonda. Una galleria di piccoli quadri inanimati come nature morte in immutato equilibrio da secoli.
Si fiuta fin dalle prime pagine della raccolta un’aria quasi di gioco. Gioco serissimo, perĆ²; come quando l’identificazione dell’oggetto evocato risulta raggelata in un enigma. Certo, il lettore impaziente puĆ² sempre precipitarsi sull’indice finale, e scorrere in chiaro l’elenco dei titoli che corrisponde alla collezione degli oggetti ritratti. Ma ĆØ operazione sconsigliata, prima di tutto dall’autrice, perchĆ© impedirebbe sul nascere quel prezioso volo dell’intelligenza e della fantasia che ci porta a scoprire l’oggetto dietro la trama delle metafore e degli ossimori.
Raschiando la rozza carta esegue la sua opera./L’arrendevole utensile macina la ruvidezza della mente./Con dolce fermezza sgombra ogni catasta che trova.
Questa, per esempio, ĆØ la lima. EntitĆ  sempre esposta al nostro sguardo quotidiano, ma che non degniamo piĆ¹ di attenzione per forza di abitudine, per forza di distrazione. La distrazione - sembra di capire - ĆØ ben piĆ¹ e ben peggio di una semplice svista: ĆØ la sotterranea patologia di una civiltĆ  troppo impegnata a guardare e a cercare il nuovo a tutti i costi.
Preordinata a questa raccolta ĆØ una poetica dello sguardo. Un’etica del poetare.
La volontĆ  di dire nasce dalla convinzione che un nuovo modo di porsi dinanzi al mondo (ai suoi oggetti) ĆØ piĆ¹ che mai necessario. E’ una sorta di dovere morale, una necessitĆ  politica, uno sforzo pedagogico che occorre compiere per tenersi al di sotto – o al di sopra – della contagiosa abitudine alla superficialitĆ  che sta corrompendo in maniera irreparabile il nostro rapporto con gli oggetti che ci stanno intorno. Se per adesso ci siamo assuefatti alla lenta malattia che devitalizza la portata affettiva delle cose, prima o poi capiterĆ  che anche nei rapporti umani ci abbandoneremo – gradualmente ma irreversibilmente – all’indifferenza.
Barbara Carle si augura che questi oggetti – e mille altri, naturalmente – sopravvivano al prossimo crollo di civiltĆ , suggerendo implicitamente che un prossimo crollo forse ci sarĆ  e implicitamente ammonendo perchĆ© sia nostra cura prepararsi in tempo per restituire alle cose il valore che esse naturalmente possiedono e che noi siamo cosƬ abili a cancellare a causa di quel lento cedimento alla pigrizia dell’intelletto, alla durezza del cuore.
La singolaritĆ  di queste poesie sta proprio nella rigorosa volontĆ  di Barbara Carle di riconoscere agli oggetti una identitĆ  – di piĆ¹, una dignitĆ  – che essi possiedono e che in essi ĆØ condensata, da qualche ora o da qualche secolo, non fa differenza. Gli oggetti sono dotati di piena autonomia. I verbi in terza persona, che evitano la presenza dell’io poetante, escludono a priori ogni concessione al lirismo, ogni cedimento al soggettivismo. Il soggetto, autoesiliatosi linguisticamente, lascia campo aperto all’oggetto.
Strumento principe di questo metodo di lettura e di scrittura ĆØ la metafora, utilizzata qui come esca lanciata al lettore per attirarlo lungo percorsi di ri-scoperta conoscitiva degli oggetti, cioĆØ in una maniera che ricorda la lezione barocca di Emanuele Tesauro che in quella figura vide una strategia cognitiva capace di collegare entitĆ  comunemente giudicate lontanissime e incompatibili: Pollice imbrattato/sfrega via i personaggi/dal bianco palcoscenico./Non espunge/perĆ² eclissa/le loro figure/e le fa sbiadire./I suoi pieghevoli sforzi/non l’invecchiano/anzi alleviano/il dolore/della pagina.
E’ la gomma. La gomma per cancellare.
In un permanente atto di umiltĆ , tutto il campo deve essere occupato dagli oggetti e ad essi la poetessa piega le parole, anche letteralmente, come quando la disposizione dei versi mima, in sorprendenti calligrammi, la configurazione fisica delle cose: la matita ĆØ una lunga strofa filiforme e il cavaturaccioli ci appare come una sinuosa spirale. O come quando il periodo si allunga in cinque versi privi di pause interpuntive (a significare l’effetto stereofonico della sensazione olfattiva) e caratterizzati dal frequente ricorso alla sinestesia: La bottiglia rotonda contiene/l’essenza dei gelsomini al crepuscolo/fa piĆ¹ intenso il profumo/dolce piccante del mazzo/evoca l’aroma del buio.
Gli oggetti possiedono il dono della permanenza, resistono allo scorrere del tempo, hanno la possibilitĆ  di sopravviverci. Spia linguistica di questa fascinosa realtĆ  ĆØ la diffusa occorrenza del gerundio che esprime, appunto, una durata atemporale, illimitata perchĆ© indefinita, dunque sempre rinascente: Semplicemente ma/tortuosamente/evocano mia nonna/nominandola da nubile/stampandola cosƬ per sempre. Mentre il presente indicativo sembra fissare gli oggetti in una eterna staticitĆ , col ricorso al gerundio la poetessa allude al prolungarsi di uno stato.
Una poesia del silenzio. E non solo perchĆ© gli oggetti sono muti per definizione, ma anche perchĆ© l’allontanamento dal frastuono costituisce una sorta di precondizione per aprire le orecchie alla vita segreta delle cose (il gatto, silenzioso, sembra deridere il nostro umano balbettare).
Tuttavia gli oggetti sono sempre in stretta interrelazione col soggetto: agiscono su di lui, schiudono ricordi, innescano sensazioni.
Se, infatti, ad una prima lettura l’impressione che ci resta ĆØ quella di un calcolato distacco, d’improvviso nel gelo del dettato si aprono spiragli. La forza dei sentimenti, dei ricordi personali, delle privatissime sensazioni scavalca il muro di oggettivitĆ  che Barbara Carle si ĆØ imposta di osservare. E quando s’imbatte nella giacca da camera indossata dal padre, ĆØ impossibile resistere alla portata dell’emozione: la prima persona – fatto singolarissimo in questa raccolta – irrompe nel verso: Sono persa nelle maglie lanuginose/nel vuoto della trama del tessuto/dentro le lunghe morbide maniche/orlate di nodi scuri e di pallidi cappi./Di una tenerezza senza condizioni/paterna, protettiva, calda/la giacca di lana rimane troppo grande per me.
Ecco perchƩ in epigrafe viene citato il Poemetto della cenere di Rodolfo Di Biasio. Le cose appartenute alle persone care, sebbene apparentemente inerti e fredde, raggrumano in sƩ la potenza degli affetti e stanno lƬ per essere toccate come traccia che resta di un mondo che sparisce.
Di questo passo, perfino il piĆ¹ umile degli oggetti della casa, guardato, toccato, annusato con animo pronto a incendiarsi, in bellissimi versi apre scenari campestri di straordinaria potenza evocativa, quando il rigoglio della bella stagione, in portentoso abbraccio, esplode nella luce e nel calore che avvolgono ogni dettaglio: La terra si sveglia, persuasa dal chiarirsi delle nuvole./Frizzanti e benevole mentre si alzano dal sonno/le cicale grattano i loro stridenti ritornelli./Le balle di fieno scintillano nei campi./Presto il caldo blandisce lo stridio con lente/ma costanti ondate di splendore. E’ ora di mietere/il sole dentro mucchi di fieno il cui bagliore/delizia gli ombrosi letti di torrenti segreti.


Barbara Carle, Tangible Remains – Toccare quello che resta, Ghenomena, 2009.

3 Commenti

  1. Vorrei ringraziare Roberto Tortora per una lettura giusta, sensibile, e sentita.
    Noi che scriviamo e leggiamo abbiamo bisogno di altri lettori-scrittori-e penso agli ostacoli elencati in / Il Parini ovvero della Gloria/ del Leopardi.... Grazie ancora!


    Barbara Carle

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  2. Nel libro di Barbara "si alternano, in un gioco ossimorico, allegrezza e disperazione, gentile ironia e disicantato rammarico per quella che definirei "la vita perduta (nell'attuale opaca memoria) delle cose."

    Domenico Vuoto

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  3. Mi sono aggirato nella tua galleria di objets, ammirandone il tratto incisorio, en graveur, che dĆ  nettezza e nerezza all'aerea, quasi enigmistica giocositĆ  dell'impresa. In veritĆ  questi tuoi tattili remains hanno, mi pare, la loro chiave piĆ¹ interna, nella penultima poesia, quella delle lettere: una chiave letterale, che ĆØ funebre e vitale insieme: quasi una mise en abĆ®me (per esagerare col francese e con l'araldica) che li svela, faraonicamente, come il corredo del defunto, o il corredo di tutti i viventi defunti futuri... Insomma, la vita testimoniata dal muto teatro delle cose, fermate nella "lettera" della poesia.

    Gianfranco

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