Ma c’è un futuro per i giovani?

di Vincenzo Jacovino


Quanta infelicità e noia di vivere emerge dal doloroso grido del poeta

non c’è cosa più amara che l’inutilità. (C. Pavese)

e se pur

ci pensano tutti
aspettando il lavoro, come un gregge svogliato (C. Pavese)

lasciano che il senso d’un declino inarrestabile li avvolga per poi farsi seppellire dall’opaca polvere del tempo presente. Sembra, purtroppo, che la folta schiera di giovani fissi il mondo e la realtà circostante

col morto sorriso
di chi è stato battuto, ma non odia e non grida
perché sa che da tempo remoto la sorte (C. Pavese)

la sua sorte è stata, attraverso false immagini e verità mascherate, decisa e decretata. Ecco perché il grido di dolore del poeta, nella mente e nel corpo dei giovani, s’è fatto sostanza. Pare naturale se non proprio ovvio passare attraverso la crisi economica ad una crisi morale. I giovani, giorno dopo giorno, constatano di non avere il futuro nelle proprie mani, anzi di non avere, in effetti, un futuro. Ecco, quindi, l’amara constatazione della propria inutilità che non è una percezione ma specchio della consapevole valutazione attuale della realtà.
E’ diffuso tra i giovani la consistenza del tempo comune
un tempo né presente
né assente; (A. Di Raco)

un tempo buono solo per brucare fra rottami o frattaglie di pseudo lavoro sufficiente a

scontare un tempo non vissuto
e

pagare un balzello (voluto) da altri,

ossia dalla catena inossidabile della gerontocrazia.
Ma come mai, dato il quadro sconfortante della condizione giovanile, non c’è alcun tentativo da parte degli interessati di rompere la catena, di ribellarsi invece di affogare nel

l’amarezza del tempo
presente ? (A. Di Raco)

S’intravede, comunque, un futuro per questi giovani? Perché l’attesa reca con sé, purtroppo quasi sempre, solo canizie e rimpianto.



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