Il senso nascosto


Giuseppe Gavazza

Il senso nascosto (The Hidden Sense: Synesthesia in Art and Science, The MIT Press, 2007) è il titolo del bel libro di Cretien van Campen (olandese, studioso di scienze sociali in rapporto con il mondo delle arti) che affronta il tema della sinestesia, la capacità di “mescolare” le percezioni provenienti da sensi diversi: tipicamente vedere colori ascoltando suoni, associare colori a numeri e lettere dell'alfabeto e molte altre combinazioni offerte dai nostri canali sensoriali che, solo per convenzione, riduciamo al numero di cinque.
Il tema è complesso e affascinante, in particolare per chi si occupa di arte nell'epoca del digitale e del multimediale. Una cosa si evince dal libro citato, così come da molte altre fonti: le percezioni sinestetiche non sono una fantasia. Strumenti di misura che scannerizzano l'attività del cervello in tempo reale dimostrano che le aree del cervello specializzate si attivano davvero con stimoli sensoriali non specifici. Insomma chi dice di vedere colori ascoltando suoni attiva davvero nel proprio cervello l'area visiva pur essendo bendato durante l'ascolto, cosa che una persona “normale” non è in grado di fare.

Ho letto questo ed altri libri approfondendo lo studio di Aleksandr Skrjabin, cercando il senso nascosto dell'opera di questo compositore russo vissuto tra il 1872 e il 1915, pianista virtuoso, mistico, teosofo, ricercatore originalissimo di nuovi linguaggi armonici e timbrici. Il suo progetto finale era il Mysterium, una grandiosa opera d'arte globale e multisensoriale che andava ben oltre il Gesamtkunstwerk (Opera d'arte totale) wagneriano mettendo in scena suoni, luci colorate, parole, danze, odori, sapori e, soprattutto, abbattendo il palcoscenico, la consueta divisione tra il pubblico e gli interpreti: tutti sarebbero stati – nel Mysterium – allo stesso tempo interpreti e pubblico di un evento che doveva durare giorni e notti ininterrottamente. Il sogno del Mysterium fu stroncato dalla morte del compositore e restò incompiuto.
Skrjabin sosteneva di avere sensazioni sinestetiche (l'elenco di musicisti e artisti famosi sinesteti è più lungo di quanto s'immagini: ma spesso questa capacità viene tenuta nascosta, anche per timore di essere presi per folli visionari): il compositore russo vedeva colori ascoltando suoni e componeva le sue musiche creando accordi per costruire timbri anche in funzione delle percezioni visive. In un certo senso, a mio avviso, il cuore del linguaggio skrjabiniano era ante litteram quello della musica elettronica che crea nuovi suoni addizionando suoni fondamentali semplici come singole note.
Del resto che si parli abitualmente di colore a proposito di orchestrazioni, di armonie scure o luminose ci fa pensare che probabilmente siamo tutti, almeno un poco, sinesteti.

Nel Prometeo, Il poema del fuoco, op. 60, composto nel 1910 per pianoforte e orchestra, Skrjabin scrive in partitura, esattamente notata nel suo rigo pentagrammato, una parte indicata con il termine “Luce”, specificando che si tratta di un Clavier à lumière uno strumento muto capace di produrre fasci di luce colorata: ogni linea e spazio del pentagramma indica un colore diverso secondo una tabella di corrispondenze esatte che era quella percepita dal compositore. E' evidente che nel 1910 non esisteva nulla di simile e lo strumento che venne utilizzato e che potete vedere nella foto di intestazione, ci fa sorridere. Ho trovato questa foto in bianco e nero e mi piace usarla qui - immaginando che possa essere una foto dell'epoca - invece di cercarne una a colori.

Come altri russi e, più in generale, come molti artisti e intellettuali venuti dal freddo, Skrjabin amava e frequentò le coste italiane: tra il 1905 ed il 1906 visse per quasi un anno nella splendente luce mediterranea di Bogliasco, nel golfo che va da Genova al promontorio di Portofino che ancora oggi si chiama Golfo Paradiso. Ho avuto la fortuna di approfondire la mia passione per il compositore russo, un secolo dopo, proprio qui, a Bogliasco (dove esiste un ben documentato Centro Studi Skrjabiniani – Associazione Culturale Bogliasco per Skrjabin) grazie all'accoglienza in residenza della Bogliasco Foundation, The Liguria Study Center for the Arts and Humanities (http://www.bfge.org).
Ho da pochi giorni terminato di trascorrere un mese di eremitaggio di studio a Bogliasco, in un vero angolo di paradiso, leggendo, studiando, ascoltando, prendendo appunti per cercare di rispondere alla domanda: “Cosa farebbe Skrjabin se potesse riviver oggi avendo a disposizione gli strumenti adeguati per le sue utopie?”.
Una risposta ovviamente non ce l'ho e non sarebbe descrivibile qui, in poche righe, anche perché lo studio prosegue e sono più le cose che ho scoperto e che vorrei studiare di quelle lette; ma so che le direzioni che prenderanno gli sviluppi creativi della mia ricerca sono principalmente due.

- Il primo nasce dalla considerazione che gli spazi, la multisensorialità ed il tipo di coinvolgimento per il pubblico-interprete utopizzate da Skrjabin per il suo mai compiuto Mysterium (che resterà quindi giustamente misterioso) assomigliano molto a quelli oggi consueti usati dai giovani per incontrarsi: il clubbing, le discoteche, i rave party sono adeguati, a mio avviso, alle intenzioni del Mysterium più di un Concerto o un'Opera in una sala classica.

- Il secondo va in direzione opposta e considera la dimensione acustica della musica, la sola possibile un secolo fa.
Invece di cercare la grandiosità dell'associazione suoni-colori amplificando i suoni per portarli al livello delle proiezioni luminose vorrei abbassare i colori luminosi al livello cameristico della musica acustica. Qualcosa del genere, restando solo nel mondo sonoro però, ho già fatto una decina di anni fa con un ciclo di Variazioni proprio su di un Prélude di Skrjabin (Op.45 n.3) per Disklavier e suoni di sintesi: i suoni elettronici risuonavano in piccole casse acustiche invisibili, nascoste dentro il pianoforte a coda da concerto mescolandosi con il suono acustico non amplificato. (Il Disklavier è un vero pianoforte a coda da concerto che ha sensori su tasti e pedali che permettono un dialogo completo, in ingresso e uscita, con il mondo digitale: può comunicare con un computer ed essere pienamente suonato da esso, permettendo una programmazione completa dell'interazione e dando al pianista il pieno controllo del computer).

La nostra percezione è estremamente articolata e complessa e si adatta alla soglia per cui è sollecitata: un suono, una luce possono essere forti e chiari, abbaglianti, anche se risultano piano e deboli nella ottusa, oggettiva misurazione strumentale: il tremolio luminoso di una lucciola o il rumore di un guscio calpestato per sbaglio, amplificati dalla nostra coscienza, diventano fragorosi. Così i più che pianissimo di uno strumento solo in una grande sala è udibile anche dall'ultima fila e non solo per una questione di buona ingegneria acustica.
Quindi, nel mio progetto compositivo, vorrei ritornare al Disklavier per controllare - attraverso le note di Skrjabin suonate sulla tastiera dal pianista e “riconosciute” dal computer ben istruito – un piccolo sistema di proiezioni colorate che nascono li dove nasce il suono: nella cassa acustica del pianoforte a coda, dando al pianista un completo Clavier à son e lumière
E poi vorrei lavorare di installazioni-maquette, di piccoli spazi micro-teatrali riempiti di colori e suoni skrjabiniani innescati da sensori all'avvicinarsi delle persone: sapendo recuperare lo stupore infantile quei piccoli spazi di luci e colori potrebbero assorbirci e diventare giganteschi.

Vedremo e ascolteremo cosa accadrà.

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