Ambientarte a Gaeta



di Roberto Tortora


Rassegna riservata ad artisti che utilizzano materiale di riciclo. 6 marzo - 17 aprile 2011. II edizione.




Un’opera d’arte assemblata utilizzando materiali con vario estro riciclati, recuperati, rilavorati o semplicemente rivissuti, non può non prender forma dal germe del paradosso. Germe sempre fecondissimo e tanto più accattivante quanto più stravagante è la sfida lanciata alla maniera corriva di leggere la realtà.


Nell’universo quotidiano, perlomeno in questa porzione di pianeta investita dalle magnifiche sorti e progressive del consumismo, gli oggetti hanno una nascita, una vita funzionale sempre più breve, e un interminabile, inerte, inutile post mortem. Oggetti e materiali che cessano di servire a qualcosa perdono immediatamente la presenza, non hanno più diritto di circolazione in mezzo a noi vivi che abbiamo fatto della funzionalità e della iperattività gli imperativi categorici del nostro tempo. Non possedendo più una funzione, oggetti e materiali inservibili diventano membri costitutivi di un pianeta a parte, il pianeta delle cose morte, una massa anonima, indistinta e amorfa che non è fisicamente separata da noi: più propriamente ci lascia indifferenti. Un paio di forbici sono un paio di forbici finché servono a tagliare e un cartone è un cartone fin quando contiene qualcosa. Poi diventano strati indifferenziati del nulla, cellule senza nome di ciò che è stato e che da un momento all’altro non sarà più.


Ambientarte, dunque, nasce dal paradosso inteso come rovesciamento dello sguardo ordinario, nasce dal desiderio, perfino dal piacere di restituire diritto di circolazione, autorizzazione alla presenza e infine bellezza, proprio così, “bellezza”, agli oggetti e ai materiali che un minuto fa abbiamo confinato nell’angolo più inaccessibile di un cassetto in soffitta o in quelle gigantesche fosse comuni dell’ambiente che sono le discariche a cielo aperto. Ogni opera prodotta ed esposta è un’incongruenza: è sommamente inutile se rubricata sotto la categoria della funzionalità pratica, eppure è capace di innescare inaspettate rivoluzioni di senso. Non è forse una giocosa provocazione attribuire valore artistico, cioè una preziosità che dura nel tempo, ad un oggetto nato per essere un “usa e getta”, un minuscolo stecco di plastica col quale vorticare granelli di zucchero nel caffè? Lo è certamente, a patto che si accetti l’invito elargito dall’artista a posizionare il già visto in un contesto inconsueto.


Questo, però, è solo l’inizio del percorso. Basta compiere un altro passo per sentirsi afferrati da una sorta di magnetismo ancestrale, una forza primigenia che tiene insieme ogni tassello della Natura, a prescindere dall’uso che di quel tassello è stato fatto fino a un momento prima che fosse gettato via. Le stecche di una sedia, i listelli di un telaio ligneo, una volta ricomposti nella figurazione originaria del gran padre albero diventano di nuovo, e questa volta per sempre, la matrice vegetale che li ha generati. Un po’come quei caratteri tipografici caduti in disuso e di cui ci si è frettolosamente liberati: risistemati su un pannello sembrano emergere da un biancore eloquente come l’infinita possibilità delle frasi ancora tutte da formulare. Magnetismo, forza di attrazione, corrispondenza tra regni animale e minerale innervano il mondo di Ambientarte, se chiodi e cesoie spaiate si ricompongono nel grido al sole lanciato da un fenicottero. Qui il ferro inservibile cessa d’essere materiale di scarto per trasformarsi in materia elementare depurata da qualsiasi scoria superflua e nella sua trama filiforme evoca la purezza di un dialogo, tra un animale lacustre e il suo dio, oppure tra due adolescenti innamorati, un dialogo che non è mai terminato.


Lungo questo ipotetico percorso, la tappa successiva sorprende e scuote, quando si scopre che il più efferato degli arnesi da taglio, un brutale segaccio – non appena l’artista lo abbia arrotolato e collocato in una lastra trasparente - possiede la spazialità, la purezza formale che è figura in sé compiuta. In questo caso la prima destinazione d’uso dell’arnese ci appare non solo lontanissima, ma addirittura impropria visto che la conformazione suggerita da questo principio di spirale, ingentilita da una dentellatura che non ha più niente di minaccioso, entra in consonanza con un’idea della quiete fissata da qualche parte dentro di noi ed echeggiante, forse, solo nella centrifuga espansione delle galassie. E a un terminale intergalattico, oppure a un microcheap, paiono alludere le composizioni di Modesto Adamo, che nel cartone incide aperture circolari come prese d’aria di un alveare futuribile: cellule, ponti e moduli seriali incrociano lo spazio progettato nel rigore geometrico che vanta proporzioni di una classicità senza tempo.


Così avanzando si prende la rincorsa e ci si apre al volo. Nel processo di nobilitazione della materia, l’oggetto rifiutato si è spogliato del suo peso utilitaristico. I materiali riciclati perdono la gravezza terrestre e, ricomposti secondo un ordito misterioso, ci conducono per mano lungo un itinerario di ricerca che sconfina, verso l’alto, nel sacro. Maria Amalia Cangiano ci pone di fronte ad una umanità turbinante su uno sfondo d’oro: ha vestito di stoffa decine di figure con la cura certosina, quasi maniacale, di chi trovi nella ripetizione del dettaglio una specie di formula magica, una preghiera visiva, un mantra cromatico che apra vie di fuga all’infinito. Paola Abbondi ci lascia di fronte al totem che conduce oltre le nuvole e noi, verticali e assorti, per qualche istante ci disinquiniamo di tutti i rumori e di tutti i grigiori per abbandonarci ad un’indagine su ciò che esiste sopra e prima di ogni cosa. Oppure restiamo vittime di una vertiginosa malia quando proviamo a sbrogliare visivamente i cartigli aggrovigliati nel Mandala di Marilde Magni. La Mappa del Tibet, ridotta in diafane stelle filanti inanellate, è una catena interminabile, leggera come la carta di cui è composta, tenace come il popolo che abita quella regione, rarefatta come l’aria che si respira in cima alle sue montagne.


Infine, il presagio e la Speranza.


In questo scampolo di primavera è bastato che la Natura si stiracchiasse per una manciata di secondi perché fossimo costretti a rivedere il nostro sconsiderato modo di concepire l’ambiente e perché vacillassero le superbe pretese di lunga durata. Salvatore Bartolomeo, retrocedendo fino al primo germogliare della materia, non nasconde la forza devastante dell’Universo, semmai la scopre e l’attraversa, ma ci sprona anche a cercare un rassicurante principio d’ordine nella trasparenza dell’acqua e di tutte le mattine che illumineranno ancora la Terra.

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