di Roberto Tortora
Il mondo senza tregua dell’angoscia è chiuso e tetro, è una prigione circoscritta, limitata nello spazio perché coincide con la misura carnale del corpo, col numero delle ossa e con la circonferenza del cranio. Prigione barocca affollatissima di serpenti e fiori, e sontuosa come può esserlo un catafalco per la morte di un’imperatrice.
Poi c’è l’insonnia come lenta agonia: una lotta impari di uno contro tutto (contro strade, rumori, amori, sieri, pensieri, visioni e passioni…); l’insonnia puntualissima che non recede dal proposito assassino di tornare a far visita.
E c’è la speranza. Che da giovani, quando è più accesa, è vissuta in affannosa corsa, non è goduta per il lievito prodigioso che possiede e da vecchi, invece, è sogguardata come l’amante che ha voltato le spalle.
Il luogo prediletto per questa prova generale della morte è la cucina di casa, uno spazio improprio, forse incongruo (una morgue), se resta l’ultimo porto in cui raccogliere le ossa rotte dal sonno che non arriva, quando le mani si infilano tra i capelli in un’ora gialla della notte.
Palmery crede scientificamente nel male di vivere. E’ più che pessimista, è apocalittico: Così se piovono colpi sulla testa / un fegato esplode o l’inferno / apre uno sfiatatoio sotto la nostra finestra: / nulla è a capriccio o secondo il caso, / ma un piano ben studiato che dissesta / i lugli delle nascite e le morti / di ogni giorno: è così da sempre e il disegno / giace sepolto da uno spolverio / d’astri millenario in un angolo / dell’universo, dimenticato come un seme / al buio che si rinnova / da solo e dà il suo frutto solitario / e tossico: il disastro.
A rendere più insopportabile il tedio provvede poi l’asimmetria tra la ristrettezza dello spazio (il corpo, la cucina domestica) e l’infinità della durata. L’angoscia infatti è senza fine, è una condizione ricorsiva, è un movimento circolare (star male, mancare… star male, mancare…).
Perfino lo spavento non è descritto come impressione istantanea. Non è lo straniamento paralizzante di fronte all’imprevisto, è piuttosto uno stato permanente dell’io. L’iterazione lessicale vale come un continuum mentale, una condizione immutabile di monotonia.
Ora, se il destino comune dell’uomo è quello di subire il peso dell’angoscia, al poeta tocca il compito di forzare la misura in un rompicapo morfologico che possiede la genialità ilare del gioco. Egli sfida il limite spaziale e spirituale della prigione, sonda, esamina, smonta e rimonta le parole. Se necessario le inventa o le riscopre, le fa germinare le une dalle altre in maniera tale che lo spazio chiuso alla fine si dilati e si dilatino i limiti del conoscibile.
All’inizio di ogni composizione Palmery si dota di un gruzzoletto di parole, un numero limitato di termini che circoscrive il perimetro di una angusta prigione: la singolarità di questa lingua – la cifra stilistica di questa poesia - sta nel rigore con cui viene sondato l’asse paradigmatico del linguaggio; sta nella zelante ricerca di tutte le possibili scintille che scoccano quando prefissi e suffissi di un lessema cozzano gli uni contro gli altri.
E allora, cosa resta? Resta la polvere. I Madrigali alla polvere sono due piccoli capolavori.
Variazioni su tema, gioco di ripetizione e inno, un riconoscimento che è anche una dichiarazione di simpatia, forse di empatia, una vera e propria consonanza di intenti: la polvere è la prova materiale della inutilità e della transitorietà di tutte le cose, è la beffarda testimonianza di quanto tutto, specialmente ciò che pretende di risultare eterno, sia in realtà effimero. Il poeta ne celebra i fasti, la fa assurgere a veneranda reliquia, una sorta di capolavoro della specie terrestre, l’unico degno d’esser celebrato e ammirato perché nessun altro è al tempo stesso altrettanto definito nella sua essenza e così rappresentativo del destino delle cose terrestri: dovunque polvere, polvere, non c’è / che polvere che pesa e pende / in lanosi festoni o polvere / lieve volante per l’aria: chimerica / polvere dorata che il sole incanta / e in vorticosi raggi sale / e discende: vita / immortale della polvere! il mondo / è suo: trionfalmente / lo occupa, lo addobba / con i suoi veli, le tele, le / tende: eterno / in terra plenario niente.
Poi c’è l’insonnia come lenta agonia: una lotta impari di uno contro tutto (contro strade, rumori, amori, sieri, pensieri, visioni e passioni…); l’insonnia puntualissima che non recede dal proposito assassino di tornare a far visita.
E c’è la speranza. Che da giovani, quando è più accesa, è vissuta in affannosa corsa, non è goduta per il lievito prodigioso che possiede e da vecchi, invece, è sogguardata come l’amante che ha voltato le spalle.
Il luogo prediletto per questa prova generale della morte è la cucina di casa, uno spazio improprio, forse incongruo (una morgue), se resta l’ultimo porto in cui raccogliere le ossa rotte dal sonno che non arriva, quando le mani si infilano tra i capelli in un’ora gialla della notte.
Palmery crede scientificamente nel male di vivere. E’ più che pessimista, è apocalittico: Così se piovono colpi sulla testa / un fegato esplode o l’inferno / apre uno sfiatatoio sotto la nostra finestra: / nulla è a capriccio o secondo il caso, / ma un piano ben studiato che dissesta / i lugli delle nascite e le morti / di ogni giorno: è così da sempre e il disegno / giace sepolto da uno spolverio / d’astri millenario in un angolo / dell’universo, dimenticato come un seme / al buio che si rinnova / da solo e dà il suo frutto solitario / e tossico: il disastro.
A rendere più insopportabile il tedio provvede poi l’asimmetria tra la ristrettezza dello spazio (il corpo, la cucina domestica) e l’infinità della durata. L’angoscia infatti è senza fine, è una condizione ricorsiva, è un movimento circolare (star male, mancare… star male, mancare…).
Perfino lo spavento non è descritto come impressione istantanea. Non è lo straniamento paralizzante di fronte all’imprevisto, è piuttosto uno stato permanente dell’io. L’iterazione lessicale vale come un continuum mentale, una condizione immutabile di monotonia.
Ora, se il destino comune dell’uomo è quello di subire il peso dell’angoscia, al poeta tocca il compito di forzare la misura in un rompicapo morfologico che possiede la genialità ilare del gioco. Egli sfida il limite spaziale e spirituale della prigione, sonda, esamina, smonta e rimonta le parole. Se necessario le inventa o le riscopre, le fa germinare le une dalle altre in maniera tale che lo spazio chiuso alla fine si dilati e si dilatino i limiti del conoscibile.
All’inizio di ogni composizione Palmery si dota di un gruzzoletto di parole, un numero limitato di termini che circoscrive il perimetro di una angusta prigione: la singolarità di questa lingua – la cifra stilistica di questa poesia - sta nel rigore con cui viene sondato l’asse paradigmatico del linguaggio; sta nella zelante ricerca di tutte le possibili scintille che scoccano quando prefissi e suffissi di un lessema cozzano gli uni contro gli altri.
E allora, cosa resta? Resta la polvere. I Madrigali alla polvere sono due piccoli capolavori.
Variazioni su tema, gioco di ripetizione e inno, un riconoscimento che è anche una dichiarazione di simpatia, forse di empatia, una vera e propria consonanza di intenti: la polvere è la prova materiale della inutilità e della transitorietà di tutte le cose, è la beffarda testimonianza di quanto tutto, specialmente ciò che pretende di risultare eterno, sia in realtà effimero. Il poeta ne celebra i fasti, la fa assurgere a veneranda reliquia, una sorta di capolavoro della specie terrestre, l’unico degno d’esser celebrato e ammirato perché nessun altro è al tempo stesso altrettanto definito nella sua essenza e così rappresentativo del destino delle cose terrestri: dovunque polvere, polvere, non c’è / che polvere che pesa e pende / in lanosi festoni o polvere / lieve volante per l’aria: chimerica / polvere dorata che il sole incanta / e in vorticosi raggi sale / e discende: vita / immortale della polvere! il mondo / è suo: trionfalmente / lo occupa, lo addobba / con i suoi veli, le tele, le / tende: eterno / in terra plenario niente.
Gianfranco Palmery, Compassioni della mente, Passigli, p. 85, € 11,50.
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