Il re degli ignoranti


di Roberto Tortora

Scuola superiore, ore 11.05. Suona la campanella dell’intervallo. In una classe quinta i ragazzi si radunano intorno a un banco. Hanno diciotto, diciannove anni e sono equipaggiati con la migliore strumentazione tecnologica disponibile sul mercato, I-Pod, Kindle, Tablet, smartphone, ecc. Eppure questa mattina si armano di penna e quaderno per sfidarsi a “Nomi di cose, fiori, frutta, città,…” Insomma, il fascino intramontabile dei vecchi giochi… Tirano a sorte ed esce la Effe. Dicono: “fresia”, “fragola”, “Firenze”… Quindi, Mestieri con la Effe. Questa è più difficile. Uno di loro ci pensa su. Si concentra. Socchiude gli occhi. Infine esclama: “Ho trovato: Filippina!”

Non è una battuta. E’ solo un caso di ordinaria vita scolastica.

Un filo rosso attraversa le cronache del nostro Paese da anni. Non la curva dello spread, né l’indice di popolarità dei nostri leader politici e neanche il vertiginoso aumento della criminalità a sud e a nord di Roma. E’, invece, il tasso di analfabetismo di ritorno che caratterizza la popolazione italiana e che poggia le sue basi su un sistema scolastico in crisi di identità. Ci si chiede se valga ancora la pena spendere il 4,4% del PIL (dati 2008) nell’Istruzione pubblica. Ci si domanda cosa debba insegnare la Scuola: quali materie, con quali metodi, con quali insegnanti. E ancora: Non sarebbe meglio collegarsi da casa e diplomarsi on line? Domande che si moltiplicano, incertezze che crescono, dibattiti incandescenti.

Quel che resta è il grido di allarme a più riprese lanciato dagli operatori che a vario titolo hanno a cuore il futuro delle giovani generazioni, cioè il futuro del Paese.

In un Convegno tenutosi a Firenze all’inizio dello scorso novembre, Tullio De Mauro, padre storico della Linguistica italiana, ha dichiarato che il 71 per cento della popolazione non riesce a comprendere un testo di media difficoltà. Tecnicamente, si chiama “analfabetismo di ritorno”, praticamente, è l’anticamera dell’emergenza sociale. Ma nessuno sembra preoccuparsene. Prima c’era il bunga bunga, poi il loden del prof. Monti, a gennaio il naufragio della Concordia e adesso la neve. L’istruzione non conta. Anzi, pare che un certo tasso di ignoranza sintattica e lessicale costituisca la carta segreta per superare le selezioni del Grande Fratello.

Un accorato appello al Ministro Gelmini lo aveva rivolto Paola Mastrocola, scrittrice e insegnante, richiamando l’attenzione sulla necessità di ricominciare ad insegnare – e anche bene! – la lingua italiana. Sulla stessa linea si era espresso Carlo Formenti, docente di Scienze della Comunicazione, costretto a denunciare l’intollerabile quantità di errori grammaticali presenti nelle Tesi di laurea.

E il nuovo Ministro, il professor Profumo? Per adesso non gode di molta visibilità. Altre sono le urgenze del Paese. Tutte di carattere economico finanziario. Tanto devastanti negli effetti, quanto sincopate nella denominazione. Un unico, telegrafico succedersi di acronimi e di lemmi inglesi: BCE, FMI, S&P, tripla A, downgrading… un rincorrersi di numeri negativi e percentuali che fanno perfino perdere la voglia di parlare e di capire. Di parlare e di capire in un Italiano finalmente corretto.

Ma non perdiamoci d’animo. Tra pochi giorni qualcosa potrebbe cambiare.

Ospite del Festival di San Remo sarà Adriano Celentano, che una volta amò definirsi “il re degli ignoranti”. Lo scrisse anche alla lavagna. Ha firmato un contratto per trecentomila euro a puntata. Di questi tempi! Vorrà pur dire che i suoi monologhi avranno il potere di rivoluzionare la nostra conoscenza della Lingua e chissà, forse perfino la nostra visione del mondo. E siccome tutti conosciamo il solenne concentrato di cultura che si nasconde dietro i suoi lunghi silenzi, non ci resta altro da fare che starcene buoni buoni in poltrona, incollati davanti alla tivù, aspettando che le sublimazioni linguistiche di cui è capace restituiscano agli Italiani quel sano orgoglio identitario di cui abbiamo urgente bisogno.

nella foto: Tito Rossini, La canna, olio su tela

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