LA CONQUISTA DELLO SPAZIO E LA SCOPERTA DI NUOVE FORME DI VITA......
questa volta vi presento una new entry, una giovane ragazza molto brava e molto riservata,
ma che scrive in maniera interessante e che dice cose importanti.
a voi eleonora e speriamo che sia qui molte altre volte
ecco a voi il pezzo:
LA CONQUISTA DELLO SPAZIO E LA SCOPERTA DI NUOVE FORME DI VITA......
Eleonora Campus
Il diritto per tutti a vivere lo spazio pubblico e la propria città, oggi è generalmente infranto.
Non tutti hanno la percezione e la cognizione che vivere lo spazio pubblico, corrisponde ad un diritto irrinunciabile che è stato abilmente sottratto dalle Istituzioni e dai portatori di interessi in generale – soprattutto quelli di mercato - che poco hanno a che fare con i portatori di diritto. Pochi si sono accorti di quel che è accaduto forse proprio per la mancanza di consapevolezza da parte dei più.
Questa è una violazione generale accaduta tra l’indifferenza: la sua profanazione ha riguardato tutti anche se con livelli di intensità differenti rispetto alle conseguenze sulle persone.
In particolare, per alcuni ha effetti ancora più forti poiché corrisponde a colpire, escludere e segregare sempre più le persone con disabilità.
Per queste ultime, si tratta di un’indifferenza generale che è fisiologica a livello culturale. Tuttavia, in questa sede, vorrei ampliare la prospettiva collegando il disinteresse di ciascuno anche alla mancanza di “assimilazione” di questo diritto come tale e, quindi, rivendicabile ed esigibile.
Occorre quindi spiegare da dove nasce il diritto a vivere lo spazio pubblico ma anche i motivi per cui è stato violato.
Tradizionalmente lo spazio pubblico è uno “spazio aperto” e legato alla partecipazione politica di “chiunque” lo desideri, dove si discutono questioni al di fuori di ruoli o interessi specifici.
Lo spazio pubblico è sempre uno spazio aperto e, anche se ha comunque confini definiti da regole, queste devono essere condivise dalle persone di comune accordo, per cui ci si tratta da pari. Inoltre, lo spazio pubblico deve essere collegato con altri tipi di spazio ed deve essere radicato in un luogo fisico.
La sfera pubblica è quindi uno spazio di libertà e la voce dell’intera collettività deve trovare ascolto nelle Istituzioni che la devono garantire attraverso leggi di diritto allo spazio pubblico e quindi, più ampiamente, leggi di diritto di ognuno ad accedere, decidere e vivere la propria città.
Ma oggi le azioni dell’intera collettività non determinano gli avvenimenti di interesse comune perché determinati spazi di vita pubblica che dovrebbero essere aperti e di libertà, presupporre la partecipazione politica , dare accesso e voce a tutti indistintamente, vengono separati dai luoghi pubblici fisici (un esempio di luogo pubblico materiale è la piazza) e sono o ceduti ai centri commerciali, oppure confusi con gli spazi della socialità che sono invece organizzati per scopi ed interessi particolari.
Di conseguenza le Istituzioni danno spazi per la socialità assistita per categorie di welfare che occupano aree e fabbricati ed inoltre, in termini di risorse sono dipendenti proprio dalle Istituzioni.
In primo luogo, in generale, la socialità assistita trasforma lo spazio pubblico da luoghi di discorso spontaneo a cui tutti possono prendere parte, a luoghi di organizzazione del bisogno sociale dove però non tutti hanno la possibilità partecipare: l’accesso è solo quello di chi li gestisce e degli interessati di quello specifico bisogno.
Questi quindi sono spazi che hanno quasi tutte le caratteristiche della sfera pubblica ma gli manca la “diversità” delle relazioni perché si ricerca l’identità in un gruppo.
Solitamente, il senso di appartenenza, l’identità ricercata in un gruppo, assume valore positivo quando la base è il mantenimento delle diversità culturali dei popoli: portare avanti le proprie tradizioni, la propria lingua ecc.
Ma questo non può prescindere l’apertura ad altre relazioni con soggetti diversi da quel gruppo.
L’accezione negativa subentra quando chi gestisce questi spazi con scopi speculativi utilizza volutamente e strategicamente la ricerca di questa identità come uno strumento volto a chiudere le relazioni. La negazione dello scambio e interazione con individui diversi poi, è dettata da interessi economici settoriali allo scopo di indurre le persone a sentirsi appartenere completamente ad una data categoria a se stante, svantaggiata, separata, posta ai margini e dentro un recinto dal quale fatalmente non potranno uscire. L’autodeterminazione ed integrazione di chi ha specifici bisogni, è di fatto sottratta dai gestori di un sistema (sia fisicamente che moralmente) a cui queste persone si dovranno affidare senza altra speranza di inclusione che non sia quella governata da questi soggetti.
Per le persone portatrici di diritto, in certi casi, ne deriverà allora sia una segregazione spaziale in luoghi dedicati ma anche una segregazione di natura psicologica che è altrettanto discriminatoria.
Se infatti in un ambiente fisico si separano le persone da rapporti diversi (con tutti gli altri) e si portano alla convinzione di avere una identità “da” e “dentro” una categoria, lo stesso avverrà anche fuori da quell’ambiente (spazio specifico della socialità assistita).
Nel caso specifico delle persone con disabilità rispetto ai luoghi della socialità assistita, può accadere che questi siano gestiti in modo chiuso non solo a livello spaziale interno ma anche a livello spaziale esterno senza nulla rimettere all’autodeterminazione della persona interessata. In tal caso, le stesse modalità operative “al di dentro” si riproducono anche “al di fuori” attraverso la definizione di attività strutturate, eventi decisi e perimetrati, contatti con persone scelte e indicate a monte. Gli spazi fisici della socialità assistita inoltre, sono da sempre considerati gli habitat naturali delle persone con disabilità.
In questi ambienti a volte sono i “professionisti” e i “gestori” interessati che pongono ostacoli omogeneizzando tutte le persone con disabilità ossia, non considerandole una diversa dall’altra in termini di inclusione e ruolo attivo nella società (tipo di disabilità, potenzialità, capacità e competenze differenti comunque tra una persona e l’altra…. ecc). Oltre alla derivazione di uno stereotipo, se si rientra nell’accezione di persona disabile quello che si pone di fronte è un destino immutabile e separato poiché (sempre in termini di integrazione) alcuni stabiliscono ciò che è adatto alla “condizione” propria di disabile in quanto tale.
La mancanza di politiche di inclusione e la presenza di barriere architettoniche poi, determinano un impatto ancor più negativo rispetto ad altri soggetti perché le difficoltà pratiche che derivano dalla specifica disabilità, corrispondono di fatto ad una becera detenzione.
Ogni spazio “riservato per…” categorie crea separazione e pregiudizio ma ha anche il sapore di una concessione anziché quello di un’autorizzazione generale e diffusa di accesso e godimento.
Il problema però risiede, come accennato, anche nell’idem sentire delle persone coinvolte e categorizzate in quanto, l’acquisire esclusivamente un certo tipo di identità ed appartenenza non le porterà né a sentirsi normali (come chiunque) né a ricercare e rivendicare attivamente la normalità ove sottratta. La loro voce sarà quindi mediata dai gestori e la rivendicazione, nella maggior parte dei casi, sarà sempre quella legata ad una “singola” e specifica esigenza materiale. Riappropriarsi della normalità e dello spazio come elemento comune e di diritto di ogni individuo (sia moralmente che nell’organizzazione dei luoghi) potrebbe invece portare con se la naturale conseguenza di risolvere a monte molte rivendicazioni materiali negate da un sistema costruito su fondamenta escludenti per alcuni anziché ideato per tutti.
Ecco allora che se non si parte da una convinzione diffusa di una società costruita a misura d’uomo, generalmente inteso, i migliori alleati delle categorizzazioni possono diventare proprio i diretti interessati di un dato bisogno, oltre che i separatisti di mestiere e relativa cultura diffusa del “diverso” relegato in uno “spazio dedicato”.
In secondo luogo, lo spazio pubblico è trasformato e sottratto anche dalle organizzazioni spontanee di quartiere che ambiscono ad entrare nell’ambito decisionale del governo cittadino (con facilitatori professionali).
Ma la sfera pubblica non è uno spazio di accesso e di decisione settoriale perché in essa si devono assumere posizioni su questioni di interesse pubblico ossia, di tutti.
In generale quindi, la società civile (socialità assistita, organizzazioni spontanee di quartiere o gruppi) che si attiva spontaneamente , anziché perseguire scopi di partecipazione e azione volta al bene comune (cosiddetta sussidiarietà orizzontale art. 118 Costituzione), in realtà crea particolarismi e sottrae sfere di decisione e di libertà comune.
Lo Stato infatti, demandando le istanze di tutti cittadini all’iniziativa della società civile stessa - e cioè a soggetti privati che in concreto hanno interessi economici o ricercano un ruolo pubblico - di fatto arretra , abbandona e cede la tutela di certi diritti che invece dovrebbe necessariamente garantire in una posizione “al di sopra delle parti”.
Inoltre, anche ove esistono norme specifiche, queste restano su carta perché vengono ignorate e rimesse alle leggi di mercato, agli interessi politici ed economici che alimentano e mantengono in vita un sistema, oppure ad opere caritatevoli che fanno sempre parte di determinati circuiti. Oggi, la libertà e la tutela delle persone più deboli è mercificata sia materialmente che moralmente.
Tutto questo accade per convenienza attraverso il tacito benestare da parte dei tanti attori coinvolti sia Istituzionali (politiche di bilancio) che privati “selezionati” ad arte (lobbies nell'accezione negativa del termine se l'interesse predomina su tutti e tutto).
Ciò che dovrebbe essere imprescindibile è una società costruita a misura di tutti gli individui.
Gli spazi non possono essere suddivisi in settori ne in termini materiali, ne in termini di relazione. Gli spazi si devono “fondere” così come le “relazioni”. In questo caso la “diversità” ha il significato positivo di mescolanza e scambio (non omologazione) e non quello negativo della separazione (strutturazione e omologazione) da supremazia di un dato gruppo di individui su un altro.
Il diritto alla vita e allo spazio pubblico corrisponde sia alla libertà di tutti ad avere relazioni pubbliche aperte, integrate e diverse (non solo dentro una categoria) attraverso la partecipazione ma anche ad avere l’accesso a luoghi comuni ed un ruolo attivo, come protagonisti e decisori con pari opportunità.
Per mia deformazione caratteriale, ritengo che occorre partire dalla consapevolezza che siamo in uno Stato di diritto e di tutela per tutti e non in uno Stato appannaggio solo dei più forti o di chi ha specifici interessi. Lo Stato siamo noi tutti: ricordare questo è il primo passo.
Il secondo passo è quello di allargare il raggio della conoscenza dei diritti che sono anche quelli universali, non solo quelli materiali: la libertà di ognuno è da considerarsi tale nella misura e nel limite della condizione e della libertà del prossimo (libertà di vita e di accesso oltre a quella naturalmente intesa su determinati principi di rispetto di norme prescrittive).
Il terzo passo è tenere ben presente che ogni individuo è diverso dall’altro e la diversità è una ricchezza. Ognuno di noi non può dire di avere in comune qualcosa con qualcun altro per presa di posizione o condizione: nell’universo mondo le persone sono affini od opposte ma si riconoscono per intelligenza, sentire e perché no, anche “chimica”. Ma non si riconoscono certo per pre-determinazione da condizione (qualunque essa sia) o strutturazione di ambienti e rapporti.
Una società omologata, fatta a misura solo della maggioranza, è piatta, senza stimoli ne confronto.
Non potrà mai essere una società migliore, evolutiva: imploderà su se stessa, anzi “arretrerà” inevitabilmente anche su poche cose acquisite.
Il quarto passo è considerare la “normalità” una accezione propria di ogni individuo: normalità è tutto. La condizione è un elemento oggettivo che nulla ha a che vedere con la natura di persona umana in quanto tale e come tutte le altre.
Il quinto passo è ricordarsi di essere “soggetti” attivi e non “strumenti” passivi di qualcun altro.
L’ultimo passo è quello di riappropriarsi (i più) o conquistarsi (i meno) a gran voce il diritto alla vita e dello spazio pubblico sottratto.
La modalità sarà quella di prendere consapevolezza di quanto è accaduto e sta accadendo, non farsi ingannare dalle politiche di sussidiarietà (di fatto fallite) perché lo sgretolamento dello Stato centrale ha portato a nuove forme di prevaricazione anziché di tutela, chiedere la possibilità per ognuno di decidere ed essere protagonista del proprio destino (in ogni luogo) attraverso la partecipazione aperta e mista (e il voto di preferenza dato che lo Stato siamo noi), l’accesso, l’interazione diretta e la RIAPPROPRAZIONE di valori morali e diritti sottratti. Da qui potrà iniziare anche una nuova cultura di integrazione e società inclusiva poggiata su valori universali e condivisi. Ma se manca alla base la consapevolezza sia di ciò che ci è stato sottratto, sia del guardare oltre il proprio specifico bisogno accettando per convincimento o sfinimento le vecchie e nuove forme di prevaricazione o segregazione, non si andrà molto lontano. Non potrà esserci alcun cambiamento. Forse anche in questo caso occorre considerare l’etica come elemento fondante e perso nel conformismo e nella natura umana poggiata di fatto (al di la delle parole di facciata) su una logica di dominio gli uni su gli altri, anziché sulla condivisione e sul bene comune
questa volta vi presento una new entry, una giovane ragazza molto brava e molto riservata,
ma che scrive in maniera interessante e che dice cose importanti.
a voi eleonora e speriamo che sia qui molte altre volte
ecco a voi il pezzo:
LA CONQUISTA DELLO SPAZIO E LA SCOPERTA DI NUOVE FORME DI VITA......
Eleonora Campus
Il diritto per tutti a vivere lo spazio pubblico e la propria città, oggi è generalmente infranto.
Non tutti hanno la percezione e la cognizione che vivere lo spazio pubblico, corrisponde ad un diritto irrinunciabile che è stato abilmente sottratto dalle Istituzioni e dai portatori di interessi in generale – soprattutto quelli di mercato - che poco hanno a che fare con i portatori di diritto. Pochi si sono accorti di quel che è accaduto forse proprio per la mancanza di consapevolezza da parte dei più.
Questa è una violazione generale accaduta tra l’indifferenza: la sua profanazione ha riguardato tutti anche se con livelli di intensità differenti rispetto alle conseguenze sulle persone.
In particolare, per alcuni ha effetti ancora più forti poiché corrisponde a colpire, escludere e segregare sempre più le persone con disabilità.
Per queste ultime, si tratta di un’indifferenza generale che è fisiologica a livello culturale. Tuttavia, in questa sede, vorrei ampliare la prospettiva collegando il disinteresse di ciascuno anche alla mancanza di “assimilazione” di questo diritto come tale e, quindi, rivendicabile ed esigibile.
Occorre quindi spiegare da dove nasce il diritto a vivere lo spazio pubblico ma anche i motivi per cui è stato violato.
Tradizionalmente lo spazio pubblico è uno “spazio aperto” e legato alla partecipazione politica di “chiunque” lo desideri, dove si discutono questioni al di fuori di ruoli o interessi specifici.
Lo spazio pubblico è sempre uno spazio aperto e, anche se ha comunque confini definiti da regole, queste devono essere condivise dalle persone di comune accordo, per cui ci si tratta da pari. Inoltre, lo spazio pubblico deve essere collegato con altri tipi di spazio ed deve essere radicato in un luogo fisico.
La sfera pubblica è quindi uno spazio di libertà e la voce dell’intera collettività deve trovare ascolto nelle Istituzioni che la devono garantire attraverso leggi di diritto allo spazio pubblico e quindi, più ampiamente, leggi di diritto di ognuno ad accedere, decidere e vivere la propria città.
Ma oggi le azioni dell’intera collettività non determinano gli avvenimenti di interesse comune perché determinati spazi di vita pubblica che dovrebbero essere aperti e di libertà, presupporre la partecipazione politica , dare accesso e voce a tutti indistintamente, vengono separati dai luoghi pubblici fisici (un esempio di luogo pubblico materiale è la piazza) e sono o ceduti ai centri commerciali, oppure confusi con gli spazi della socialità che sono invece organizzati per scopi ed interessi particolari.
Di conseguenza le Istituzioni danno spazi per la socialità assistita per categorie di welfare che occupano aree e fabbricati ed inoltre, in termini di risorse sono dipendenti proprio dalle Istituzioni.
In primo luogo, in generale, la socialità assistita trasforma lo spazio pubblico da luoghi di discorso spontaneo a cui tutti possono prendere parte, a luoghi di organizzazione del bisogno sociale dove però non tutti hanno la possibilità partecipare: l’accesso è solo quello di chi li gestisce e degli interessati di quello specifico bisogno.
Questi quindi sono spazi che hanno quasi tutte le caratteristiche della sfera pubblica ma gli manca la “diversità” delle relazioni perché si ricerca l’identità in un gruppo.
Solitamente, il senso di appartenenza, l’identità ricercata in un gruppo, assume valore positivo quando la base è il mantenimento delle diversità culturali dei popoli: portare avanti le proprie tradizioni, la propria lingua ecc.
Ma questo non può prescindere l’apertura ad altre relazioni con soggetti diversi da quel gruppo.
L’accezione negativa subentra quando chi gestisce questi spazi con scopi speculativi utilizza volutamente e strategicamente la ricerca di questa identità come uno strumento volto a chiudere le relazioni. La negazione dello scambio e interazione con individui diversi poi, è dettata da interessi economici settoriali allo scopo di indurre le persone a sentirsi appartenere completamente ad una data categoria a se stante, svantaggiata, separata, posta ai margini e dentro un recinto dal quale fatalmente non potranno uscire. L’autodeterminazione ed integrazione di chi ha specifici bisogni, è di fatto sottratta dai gestori di un sistema (sia fisicamente che moralmente) a cui queste persone si dovranno affidare senza altra speranza di inclusione che non sia quella governata da questi soggetti.
Per le persone portatrici di diritto, in certi casi, ne deriverà allora sia una segregazione spaziale in luoghi dedicati ma anche una segregazione di natura psicologica che è altrettanto discriminatoria.
Se infatti in un ambiente fisico si separano le persone da rapporti diversi (con tutti gli altri) e si portano alla convinzione di avere una identità “da” e “dentro” una categoria, lo stesso avverrà anche fuori da quell’ambiente (spazio specifico della socialità assistita).
Nel caso specifico delle persone con disabilità rispetto ai luoghi della socialità assistita, può accadere che questi siano gestiti in modo chiuso non solo a livello spaziale interno ma anche a livello spaziale esterno senza nulla rimettere all’autodeterminazione della persona interessata. In tal caso, le stesse modalità operative “al di dentro” si riproducono anche “al di fuori” attraverso la definizione di attività strutturate, eventi decisi e perimetrati, contatti con persone scelte e indicate a monte. Gli spazi fisici della socialità assistita inoltre, sono da sempre considerati gli habitat naturali delle persone con disabilità.
In questi ambienti a volte sono i “professionisti” e i “gestori” interessati che pongono ostacoli omogeneizzando tutte le persone con disabilità ossia, non considerandole una diversa dall’altra in termini di inclusione e ruolo attivo nella società (tipo di disabilità, potenzialità, capacità e competenze differenti comunque tra una persona e l’altra…. ecc). Oltre alla derivazione di uno stereotipo, se si rientra nell’accezione di persona disabile quello che si pone di fronte è un destino immutabile e separato poiché (sempre in termini di integrazione) alcuni stabiliscono ciò che è adatto alla “condizione” propria di disabile in quanto tale.
La mancanza di politiche di inclusione e la presenza di barriere architettoniche poi, determinano un impatto ancor più negativo rispetto ad altri soggetti perché le difficoltà pratiche che derivano dalla specifica disabilità, corrispondono di fatto ad una becera detenzione.
Ogni spazio “riservato per…” categorie crea separazione e pregiudizio ma ha anche il sapore di una concessione anziché quello di un’autorizzazione generale e diffusa di accesso e godimento.
Il problema però risiede, come accennato, anche nell’idem sentire delle persone coinvolte e categorizzate in quanto, l’acquisire esclusivamente un certo tipo di identità ed appartenenza non le porterà né a sentirsi normali (come chiunque) né a ricercare e rivendicare attivamente la normalità ove sottratta. La loro voce sarà quindi mediata dai gestori e la rivendicazione, nella maggior parte dei casi, sarà sempre quella legata ad una “singola” e specifica esigenza materiale. Riappropriarsi della normalità e dello spazio come elemento comune e di diritto di ogni individuo (sia moralmente che nell’organizzazione dei luoghi) potrebbe invece portare con se la naturale conseguenza di risolvere a monte molte rivendicazioni materiali negate da un sistema costruito su fondamenta escludenti per alcuni anziché ideato per tutti.
Ecco allora che se non si parte da una convinzione diffusa di una società costruita a misura d’uomo, generalmente inteso, i migliori alleati delle categorizzazioni possono diventare proprio i diretti interessati di un dato bisogno, oltre che i separatisti di mestiere e relativa cultura diffusa del “diverso” relegato in uno “spazio dedicato”.
In secondo luogo, lo spazio pubblico è trasformato e sottratto anche dalle organizzazioni spontanee di quartiere che ambiscono ad entrare nell’ambito decisionale del governo cittadino (con facilitatori professionali).
Ma la sfera pubblica non è uno spazio di accesso e di decisione settoriale perché in essa si devono assumere posizioni su questioni di interesse pubblico ossia, di tutti.
In generale quindi, la società civile (socialità assistita, organizzazioni spontanee di quartiere o gruppi) che si attiva spontaneamente , anziché perseguire scopi di partecipazione e azione volta al bene comune (cosiddetta sussidiarietà orizzontale art. 118 Costituzione), in realtà crea particolarismi e sottrae sfere di decisione e di libertà comune.
Lo Stato infatti, demandando le istanze di tutti cittadini all’iniziativa della società civile stessa - e cioè a soggetti privati che in concreto hanno interessi economici o ricercano un ruolo pubblico - di fatto arretra , abbandona e cede la tutela di certi diritti che invece dovrebbe necessariamente garantire in una posizione “al di sopra delle parti”.
Inoltre, anche ove esistono norme specifiche, queste restano su carta perché vengono ignorate e rimesse alle leggi di mercato, agli interessi politici ed economici che alimentano e mantengono in vita un sistema, oppure ad opere caritatevoli che fanno sempre parte di determinati circuiti. Oggi, la libertà e la tutela delle persone più deboli è mercificata sia materialmente che moralmente.
Tutto questo accade per convenienza attraverso il tacito benestare da parte dei tanti attori coinvolti sia Istituzionali (politiche di bilancio) che privati “selezionati” ad arte (lobbies nell'accezione negativa del termine se l'interesse predomina su tutti e tutto).
Ciò che dovrebbe essere imprescindibile è una società costruita a misura di tutti gli individui.
Gli spazi non possono essere suddivisi in settori ne in termini materiali, ne in termini di relazione. Gli spazi si devono “fondere” così come le “relazioni”. In questo caso la “diversità” ha il significato positivo di mescolanza e scambio (non omologazione) e non quello negativo della separazione (strutturazione e omologazione) da supremazia di un dato gruppo di individui su un altro.
Il diritto alla vita e allo spazio pubblico corrisponde sia alla libertà di tutti ad avere relazioni pubbliche aperte, integrate e diverse (non solo dentro una categoria) attraverso la partecipazione ma anche ad avere l’accesso a luoghi comuni ed un ruolo attivo, come protagonisti e decisori con pari opportunità.
Per mia deformazione caratteriale, ritengo che occorre partire dalla consapevolezza che siamo in uno Stato di diritto e di tutela per tutti e non in uno Stato appannaggio solo dei più forti o di chi ha specifici interessi. Lo Stato siamo noi tutti: ricordare questo è il primo passo.
Il secondo passo è quello di allargare il raggio della conoscenza dei diritti che sono anche quelli universali, non solo quelli materiali: la libertà di ognuno è da considerarsi tale nella misura e nel limite della condizione e della libertà del prossimo (libertà di vita e di accesso oltre a quella naturalmente intesa su determinati principi di rispetto di norme prescrittive).
Il terzo passo è tenere ben presente che ogni individuo è diverso dall’altro e la diversità è una ricchezza. Ognuno di noi non può dire di avere in comune qualcosa con qualcun altro per presa di posizione o condizione: nell’universo mondo le persone sono affini od opposte ma si riconoscono per intelligenza, sentire e perché no, anche “chimica”. Ma non si riconoscono certo per pre-determinazione da condizione (qualunque essa sia) o strutturazione di ambienti e rapporti.
Una società omologata, fatta a misura solo della maggioranza, è piatta, senza stimoli ne confronto.
Non potrà mai essere una società migliore, evolutiva: imploderà su se stessa, anzi “arretrerà” inevitabilmente anche su poche cose acquisite.
Il quarto passo è considerare la “normalità” una accezione propria di ogni individuo: normalità è tutto. La condizione è un elemento oggettivo che nulla ha a che vedere con la natura di persona umana in quanto tale e come tutte le altre.
Il quinto passo è ricordarsi di essere “soggetti” attivi e non “strumenti” passivi di qualcun altro.
L’ultimo passo è quello di riappropriarsi (i più) o conquistarsi (i meno) a gran voce il diritto alla vita e dello spazio pubblico sottratto.
La modalità sarà quella di prendere consapevolezza di quanto è accaduto e sta accadendo, non farsi ingannare dalle politiche di sussidiarietà (di fatto fallite) perché lo sgretolamento dello Stato centrale ha portato a nuove forme di prevaricazione anziché di tutela, chiedere la possibilità per ognuno di decidere ed essere protagonista del proprio destino (in ogni luogo) attraverso la partecipazione aperta e mista (e il voto di preferenza dato che lo Stato siamo noi), l’accesso, l’interazione diretta e la RIAPPROPRAZIONE di valori morali e diritti sottratti. Da qui potrà iniziare anche una nuova cultura di integrazione e società inclusiva poggiata su valori universali e condivisi. Ma se manca alla base la consapevolezza sia di ciò che ci è stato sottratto, sia del guardare oltre il proprio specifico bisogno accettando per convincimento o sfinimento le vecchie e nuove forme di prevaricazione o segregazione, non si andrà molto lontano. Non potrà esserci alcun cambiamento. Forse anche in questo caso occorre considerare l’etica come elemento fondante e perso nel conformismo e nella natura umana poggiata di fatto (al di la delle parole di facciata) su una logica di dominio gli uni su gli altri, anziché sulla condivisione e sul bene comune
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