di Gordiano Lupi
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Prima
Nazionale: 7 febbraio 2015. Cinema Teatro san Michele Nicola, Manfredonia. Ore
17.00. Presente il regista e il cast.
Stefano Simone è un
regista pugliese che seguo da tempo e che rappresenta una voce interessante nel
panorama del cinema indipendente italiano. La parola indipendente nel suo caso non è usata a sproposito, perché i budget
su cui può contare sono davvero modesti, contrariamente ad altri casi di ricchi indipendenti.
Gli
scacchi della vita è un lavoro più maturo e complesso dei
precedenti, basato su un soggetto tratto da un mio vecchio racconto,
rielaborato e rimpolpato in fase di sceneggiatura dai bravi Francesco
Massaccesi, Sebastiano Giuliano e Matteo Simone, senza tradire il senso della
storia. Simone affronta - forse per la prima volta - i sentieri impervi del
cinema d’autore, cita Ingmar Bergman (Il
settimo sigillo) e usa il genere per
affermare concetti importanti come la scoperta di se stessi e il senso della
vita, ma anche l’esperienza del dolore, il cambiamento, la solitudine e
l’emarginazione. Nel precedente lungometraggio - Week-end tra amici -
avevamo intuito certe potenzialità narrative, nascoste in una struttura da
cinema di genere, un noir duro ai limiti dell’horror.
In breve la trama.
Massimo è un architetto sposato con una scrittrice che viene ricoverato in
ospedale dopo essere stato investito da un’auto; la moglie per intrattenerlo
legge la bozza del suo nuovo romanzo: Gli
scacchi della vita. Un flashback
onirico conduce il protagonista in una dimensione soprannaturale dove un
singolare personaggio lo invita a disputare una partita a scacchi che segue
regole pericolose. Ogni volta che Massimo perde un pezzo è costretto a rivivere
un episodio doloroso della sua vita. Partono nuovi flashback che riproducono immagini dell’adolescenza, un difficile
rapporto con la madre prostituta, la morte del padre, il conseguimento della
laurea, il lavoro, il suicidio materno, una fidanzata perduta, un magnaccia
ucciso per disperazione, il connubio stretto con un vecchio barbone giocatore
di scacchi. La partita finisce proprio al
termine del dolore, quando il protagonista compie una catarsi totale
rivivendo errori e momenti cupi della vita. Riconosce persino la madre, parla
di un rapporto perduto, delle incomprensioni, come se si trovassero entrambi in
uno straordinario aldilà. Al risveglio tutto sembra un sogno, ma forse non è
così, perché un particolare - che non sveliamo - induce a formulare diverse
ipotesi, in un finale girato con eccellenti tempi tecnici.
Gli
scacchi della vita presenta spunti interessanti come stile
di regia, singolari scelte di ripresa e sequenze in panoramica, campo lungo e
primo piano, fotografia lucida e intensa, che cambia colorazione e sfumature.
Perfetta la scelta degli ambienti degradati teatro dell’azione, tra mare e
miseria, verrebbe da dire, in un crescendo pasoliniano.
I due personaggi principali sono interpretati dagli ottimi Michael Segal e Filippo Totaro, ben calati
nei rispettivi ruoli: intenso quello di Massimo, sopra le righe il giocatore di
scacchi che riceve l’avversario in un capannone di periferia. Simone evita gli
stereotipi e - pur citando Il settimo
sigillo - non ambienta la scena della partita a scacchi con la morte su una
scogliera in riva al mare, né in un paesaggio surreale o in un giardino, ai
piedi di un albero (come nel mio racconto). Il personaggio del giocatore è
straordinario, caratterizzato da una risata folle ed enigmatica, afferma di non
essere Dio ma neppure il diavolo, e rifugge da ogni semplificazione. L’interpretazione teatrale
ed eccessiva di Totaro è a dir poco perfetta, finisce il film e senti
riecheggiare la sinistra risata, ricordi la risposta sibillina alla domanda di
Massimo quando chiede dove sia finito: “Sei tra il nulla e l’addio”. Il film è
strutturato in flashback
sapientemente montati a incastro, quando si narra l’infanzia di Massimo cambia
attore, ma la resa del personaggio non ne risente molto, perché Libero Troiano
- il giovane interprete - è convincente ed espressivo. Molte riprese con la
camera a mano conferiscono una sensazione di straniamento e raccontano più di
tante parole i turbamenti adolescenziali del ragazzo, alle prese con
vicissitudini dolorose. Rumori di fondo e suono in presa diretta fanno il
resto, così come la colonna sonora di Luca Auriemma si conferma una scelta
vincente. Musica ritmica, sonorità moderne, tamburi, breakdance, accompagnano le immagini e scandiscono lo scorrere del
tempo. Troppo lunghe alcune parti composte da musica e immagini, che ripetono
concetti già espressi e finiscono per apparire ridondanti. Al contrario, risultano
interessanti le sequenze liriche girate sul lungomare di Manfredonia,
introspettive al punto giusto, intense nel descrivere il tormento psicologico
del ragazzo. L’incontro tra Massimo e il barbone è una felice scelta di
sceneggiatura, anche perché gioca a scacchi come il personaggio incontrato
nella realtà onirica. Viene da pensare che lo strano giocatore potrebbe essere
una proiezione fantastica della mente sconvolta che ricorda l’adolescenza. Il
film non è uniforme. Quando sono in primo piano i due personaggi principali che
disputano la partita per la vita, presenta ritmo e fluidità recitativa.
Purtroppo i personaggi femminili (moglie, madre del ragazzo e fidanzata)
limitano la scorrevolezza della narrazione. Il personaggio del magnaccia è
tratteggiato in maniera troppo monocorde, così come sono da rivedere alcuni
dialoghi madre - figlio e la recitazione impostata di Giulia Rita D’Onofrio. In
ogni caso la pellicola si fa guardare, girata a un ritmo sincopato, tra musica
e azione, stringati dialoghi (a parte le sequenze con il giocatore di scacchi)
e pochi tempi morti. Il finale lancia un messaggio cristiano: “La vita vale un
po’ di dolore”, è importante giocare non tanto per vincere quanto per capire la
necessità del dolore. Subito dopo vediamo un caleidoscopio di ricordi che
scorrono all’indietro come una pellicola che si riavvolge su se stessa.
Rivediamo madre e figlio di fronte, un dialogo tra una presenza surreale che
proviene dal regno dei morti e un uomo distrutto dal ricordo del passato.
Straordinario il finale che resta indelebile nella memoria per un ricercato
effetto sorpresa.
Stefano Simone continua
a far ben sperare, raccontando per immagini un noir di provincia, psicologico e
introspettivo, dal taglio fantastico e soprannaturale. Riferimenti sicuri:
Fernando di Leo, molti autori contemporanei di mafia-movie televisivi (Garrone, Sollima…), le periferie degradate
di Pasolini, la lezione di Bergman, la fotografia fredda e asciutta di
Friedkin, ma anche sentori surrealisti che citano Buñuel (L’angelo sterminatore). Gli
scacchi della vita è un buon lavoro, sceneggiato e diretto con cura, che
avrebbe potuto essere ottimo se tutti gli attori avessero fornito
interpretazioni a livello di Segal e Totaro. Siamo curiosi di vedere Stefano
Simone all’opera con un budget degno di questo nome. Gli scacchi della vita è prodotto con poco più di niente e da un
punto di vista tecnico regge il confronto con lavori costati decine di migliaia
di euro.
Regia: Stefano Simone. Soggetto: dall’omonimo racconto di Gordiano Lupi. Sceneggiatura: Francesco Massaccesi, Sebastiano Giuliano, Matteo Simone. Musiche: Luca Auriemma. Fotografia e Montaggio: Stefano Simone. Trucco/Effetti speciali: Mariangela Spagnuolo. Durata:86’ . Genere: Drammatico. Formato: 16:9 widescreen (1.77:1). Audio: Stereo PCM. Origine: Italia. Anno: 2014. Produzione: Indiemovie. Interpreti: Michael Segal (Massimo adulto), Libero Troiano (Massimo giovane), Filippo Totaro (Giocatore di scacchi), Antonio Potito (Barbone), Gianni Lauriola (Magnaccia), Giulia Rita D’Onofrio (Madre di Massimo), Luigia Ilenia Ciociola (Fidanzata di Massimo), Michela Mastroluca (moglie di Massimo), Marco Di Bari, Matteo Perillo, Nicola Ciociola.
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