ANDAR PER LA BICOCCA, LE MOSTRE DI MILANO

Il nostro bravo Sauro Sassi ancora in missione milanese


ANDARE ALL’HANGAR BICOCCA A MILANO. LE INSTALLAZIONI PERMANENTI DI FAUSTO MELOTTI E ANSELM KIEFER, LE GRANDI MOSTRE DI LAURE PROUVOST E KISHIO SUGA E UN GIGANTESCO MURALE

Chi si interessi di arte contemporanea sa che l’Italia non è un paese particolarmente ricco di proposte ed opportunità per tenersi aggiornati su ciò che di più interessante avviene in questo settore nel mondo. Probabilmente siamo troppo legati al nostro glorioso passato e quindi non si avverte, soprattutto da parte pubblica, un’attenzione verso le forme d’arte legate al nostro tempo. Questo dipende anche da una grande pigrizia culturale e da una scuola che non educa e non dedica spazio al contemporaneo. Fortunatamente, ciò che il pubblico non fa viene sempre più sostituito dal privato: aziende, imprenditori, collezionisti illuminati propongono   iniziative di alto livello e spazi permanenti in cui tutti possono confrontarsi con le migliori espressioni internazionali.  Milano, che per molti versi è città più europea che italiana, è all’avanguardia nell’offerta di queste possibilità. Una delle migliori iniziative in questo campo è il Pirelli Hangar Bicocca, enorme spazio industriale, già officina di costruzione di locomotive della Breda. Costituita nel 2004 come istituzione no profit, sottoposta a grandi lavori di recupero, e adibita a mostre di artisti di grande livello internazionale, da noi poco conosciuti, che hanno la possibilità di utilizzare spazi che nemmeno tanti musei potrebbero proporre.
In realtà, la prima opera si incontra all’esterno e si tratta di una grande scultura di Fausto Melotti, intitolata “La Sequenza”, installata nel 1981 al Forte del Belvedere a Firenze nella grande mostra che gli fu dedicata in questo magico spazio. Nonostante le dimensioni monumentali (sette metri di altezza, ventidue di lunghezza e undici di profondità), l’opera mantiene quelle caratteristiche di leggerezza che contraddistinguono tutta l’arte di Melotti, che riprende, nei moduli che si susseguono, il tema a lui caro delle variazioni musicali. Il lavoro di Melotti è una installazione permanente e segna l’ingresso ai padiglioni. In uno di questi è ospitata un’altra opera permanente, “I Sette Palazzi Celesti” del tedesco Anselm Kiefer. Si tratta di una installazione enorme in cui Kiefer, nato nel 1945, riassume i temi della sua arte: sette torri in cemento armato, del peso di 90 tonnellate ciascuna e di altezza tra i 14 e i 18 metri, ispirate a un antico testo ebraico in cui si narra il cammino di iniziazione spirituale di colui che vuole arrivare al cospetto di Dio. Le torri, situate in un enorme hangar con le pareti e il soffitto neri, hanno nomi diversi, che richiamano sia la mistica ebraica sia i molteplici riferimenti culturali dell’artista, dall’alchimia alla riflessione sulla guerra alle leggende, la storia tragica e la grande poesia della Germania. Ognuna è diversa, sia nella parte terminale sia per gli elementi decorativi inseriti nelle pareti e ai piedi delle stesse; ad esempio quella chiamata Melancholia ha, alla sommità, la riproduzione tridimensionale del poliedro rappresentato nella celebre incisione di Durer, che richiama il tema dell’artista che osserva la trasformazione delle cose e attende il futuro. L’installazione è stata di recente completata con cinque grandi quadri che riprendono ancora una volta i grandi temi di Kiefer e che contribuiscono a creare, in chi cammina nella sala e tra le torri (rese ancor più inquietanti da un equilibrio apparentemente instabile) un senso di sospensione del pensiero, di riflessione sul senso delle cose presenti, passate e future.
Gli altri vastissimi spazi ospitano le mostre temporanee, dedicate, al momento, a due artisti diversissimi tra loro, per generazione e cultura: la francese Laure Prouvost (nata nel 1978) e il giapponese Kishio Suga (nato nel 1944). La Prouvost, che nel 2013 ha vinto il Turner Prize, il più importante riconoscimento della Gran Bretagna a un giovane artista, crea uno spazio immaginifico in cui collocare il ricordo del nonno, artista concettuale che, secondo leggenda, realizzò la sua opera finale scavando un tunnel che da casa sua avrebbe dovuto portarlo in Africa, e che più non tornò. Nell’opera si evoca anche la figura della nonna, che racconta del marito, ricostruendo ambienti della loro vita, anche una sala da parrucchiere e un salotto dove il visitatore può sedersi a un tavolino e bere una tazza di tè. La Prouvost si serve degli strumenti più in uso nell’arte di oggi, video, musica, installazioni ambientali, per creare un universo avvolgente, che tende ad escludere dal mondo esterno.
Tutto diverso il lavoro di Suga. In un momento in cui il Giappone è al centro dell’attenzione culturale a Milano, con la Madame Butterfly alla Scala e le visioni di Hokusai, Hirosige e Utamaro a Palazzo Reale, la prima grande mostra dell’artista in Italia ci permette di aprire un altro squarcio su un’arte e una cultura che hanno segnato grandemente il nostro secolo. Sappiamo che in Giappone ci furono secoli di chiusura totale verso l’esterno, poi, a partire dall’Ottocento, iniziarono i rapporti con l’Occidente e gli scambi culturali reciproci si intensificarono. Impressionisti e Post Impressionisti furono influenzati dalle stampe giapponesi e anche dagli arredi, dalla produzione di oggetti in ceramica. Aumentarono anche i resoconti che descrivevano quel Paese, la sua cultura. D’altra parte anche il Giappone si aprì agli influssi occidentali nella letteratura, nell’arte, nel cinema, nella fotografia (dove, a partire da metà Ottocento, nacque una scuola che raggiunse risultati di eccellenza, che si sono protratti fino a oggi). Dopo la seconda guerra mondiale la società giapponese fu sconvolta. Le atomiche, l’ingresso prepotente, fisico e culturale, degli Stati Uniti, una ripresa economica tumultuosa che provocò una modernizzazione a tappe forzate ma che lasciò anche il senso della perdita di valori profondamente radicati nella propria tradizione. Negli anni ’60 il Giappone fu scosso da un violento dibattito sul trattato con gli USA che, secondo molti, poneva il paese in una condizione di umiliante soggezione. Ci furono grandi lotte, manifestazioni violente, nacque un forte movimento che si interrogava sui rapporti con l’Unione Sovietica e la Cina maoista. Un film come Notte e nebbia del Giappone di Nagisa Oshima illustra bene la forza e la violenza di questo dibattito, che nella sinistra proseguì fino agli anni 70 e portò alla nascita di movimenti sempre più radicali, fino alla lotta armata. Il clima di esaltazione e illusione giovanile, poi tradotto in fanatismo e sconfitta, è ricostruito con sconvolgente efficacia nel film United Red Army di Koji Wakamatsu. Da destra lo scrittore Yukio Mishima, al culmine di una rivolta altrettanto perdente in nome dei valori della tradizione traditi, chiuse quegli anni col proprio suicidio rituale.
L’arte moderna giapponese si è per lo più mossa tra momenti di violenta ribellione alle convenzioni, alla chiusura soffocante della società (Gruppo Gutai negli anni cinquanta) e ricerca di forme espressive che, pur confrontandosi con l’arte occidentale, inserisse elementi peculiari della propria cultura, incluso il pensiero religioso. In questo solco si inserisce, nei primi anni Settanta, il movimento Mono-ha (la scuola delle cose) di cui fa parte Kishio Suga che occupa, coi suoi lavori, una delle enormi navate dell’ex officina. Suga utilizza elementi naturali e industriali, mettendoli in relazione tra di loro e con lo spazio in cui vengono collocati. Lo scopo dell’artista deve essere di creare queste relazioni, che investano la natura dei materiali, la rugosità, la trasparenza, la fluidità, il proprio collocarsi rispetto a pareti, pavimento, soffitti, l’azione della forza di gravità, il rapporto con lo spazio esterno. I materiali si “esprimono” grazie all’azione dell’artista, che li attiva unendoli, creando “situazioni”, in cui, liberati da qualunque funzione utilitaristica, svelano la propria natura ma anche la capacità di rivelare nuovi elementi di senso, nuove interdipendenze, dove anche le ombre concorrono alla definizione dell’opera. Per questo Suga ha voluto una luce uniforme: nulla deve enfatizzare le opere. Anche il colore dei materiali deve essere neutro, per lo più bianco e nero, nelle diverse gradazioni, o il colore naturale del legno, per non creare emozioni esteriori. Vorrei descrivere solo una delle opere, intitolata “Soft Concrete”: quattro lastre metalliche, scure, disposte verticalmente a formare un rettangolo, su una base formata da una sostanza composta da ghiaia, cemento e olio motore. In questo caso l’artista mette in contatto un materiale rigido (le lastre) con uno fluido, il cemento morbido, che impiegherà mesi per solidificare, mutando continuamente il proprio aspetto, e quindi, la percezione dell’opera.
La grande navata termina dando accesso a un altro spazio spettacolare, il Cubo, dove si testavano le macchine. Suga lo ha completamente occupato con una installazione intitolata Left – Behind Situation: un lunghissimo cavo metallico che corre lungo le pareti, ridefinendo tutto lo spazio e sul quale sono posati, in equilibrio instabile, elementi di pietra e legno. L’installazione si può osservare solo dall’esterno: lo spazio risulta ridefinito, il cavo industriale interagisce con gli elementi naturali, l’opera è evidentemente effimera e finirà con lo smantellamento della mostra. L’arte e la cultura giapponese hanno ancora tanto da dirci.
Segnalo, infine, un altro progetto che è stato avviato in Hangar Bicocca, che, come i laboratori, le conferenze, le visite guidate, mira a creare un forte rapporto con la città.
Nella parete esterna del Cubo, in uno spazio di circa mille metri quadrati, verranno invitati importanti esponenti di Street Art a eseguire interventi che resteranno visibili per la durata di un anno, per poi essere sostituiti da un’altra opera. Il primo è stato eseguito da una coppia di fratelli brasiliani, che si firmano Osgemos (i gemelli) in cui la rappresentazione si è ispirata alla precidente attività, degli stabilimenti, di fabbrica di treni e alla vicinanza della linea ferroviaria, che collegava le varie officine della zona.
L’Hangar Bicocca si trova in area periferica, in via Chiese 2, è aperta da giovedì a domenica dalle 10 alle 22 (chiusa da lunedì a mercoledì), l’ingresso è gratuito così come le visite guidate alle mostre, che sono curate dal personale interno e sono molto interessanti (le date e gli orari si trovano sul sito). C’è anche un ristorante, ricavato in quella che era la mensa della fabbrica. Per arrivare coi mezzi pubblici si prende la nuova linea 5 del metro (linea Lilla, si può prendere a Garibaldi oppure a Zara dove incrocia la linea 3 (linea gialla, che passa dalla stazione centrale e da piazza Duomo). Si scende a Ponale e si può prendere il bus n. 51, direzione Cimiano, scendendo alla fermata via Chiese Hangar Bicocca (si può anche andare a piedi, la strada è rettilinea e sono poche centinaia di metri). Se si arriva in auto ci sono ampie possibilità di parcheggio libero.
La mostra di Kishio Suga termina il 29 gennaio 2017. Quella di Laure Prouvost il 9 aprile
Sito internet, da consultare anche per le visite guidate: www.hangarbicocca.org


Sauro Sassi





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