AL LIMITE TRA MEMORIA E FUTURO: MIROSLAW BALKA ALL’HANGAR BICOCCA A MILANO

IL NOSTRO SAURO TRA UN SALTINO A VENEZIA E L'ALTRO, TORNA A MILANO NELL'AREA ESPOSITIVA HANGAR BICOCCA ORAMAI UN CULT ESPOSITIVO E CI
PROPONE MIROSLAW BALKA UN AUTORE IMPEGNATO E PIENO DI EVOCAZIONI


AL LIMITE TRA MEMORIA E FUTURO: MIROSLAW BALKA ALL’HANGAR BICOCCA A MILANO.


L’Hangar Bicocca di Milano è un enorme spazio espositivo dedicato all’arte contemporanea. Si trova in una zona sede, un tempo, di grandi insediamenti industriali, tra viale Monza e viale Fulvio Testi, verso Sesto San Giovanni. Il complesso, di 15000 metri quadrati, ospitava le officine Ansaldo-Breda, e vi si fabbricavano treni. Dopo la dismissione, triste destino di tante grandi fabbriche italiane, venne acquisito dalla Pirelli, che decise di farne il perno della propria attività culturale, con un progetto rivolto all’arte contemporanea. L’Hangar si compone di varie edifici: uno iniziale, chiamato “Shed”, era lo stabilimento originario. Seguono tre gigantesche “Navate”, 9500 metri quadrati per 30 metri di altezza, che terminano con un altro corpo, chiamato “Cubo”, anch’esso altissimo. Davanti all’entrata, una monumentale scultura di Fausto Melotti, intitolata “Sequenza”, in omaggio alla passione dell’artista per la musica. Una delle navate ospita un altro lavoro permanente, “I Sette Palazzi Celesti” del tedesco Anselm Kiefer che, secondo me, è una delle opere più belle e importanti di tutta l’arte del secondo Novecento. Gli altri spazi sono dedicati a mostre temporanee di artisti che, spesso, in Italia non si sono mai visti ma che sono tra i più importanti e riconosciuti in campo internazionale.
Attualmente lo Shed ospita una personale di Rosa Barba, italiana che vive a Berlino e che è affascinata dal cinema. Pur essendo giovane, il suo interesse si rivolge, però, non al cinema digitale ma a quello analogico, alla materialità della pellicola, alla monumentalità dei vecchi proiettori. Realizza quindi installazioni in cui i film trasmessi vengono inseriti in un contesto scultoreo e sonoro, con complicate macchine di proiezione, il rumore della pellicola e un montaggio ritmico di luci e suoni. La mostra, che comprende vari film, va quindi vista come un unicum, come indicato dal titolo: “From Source to Poem to Rhythm to Reader”. Ne fa parte anche un lavoro che prevede un proiettore, esterno allo spazio, che trasmette una luce bianca all’interno, attraverso una porta lasciata aperta. La proiezione è regolata dal passaggio dei treni della vicina ferrovia, creando così una relazione tra fuori e dentro, tra realtà concreta e immaterialità della luce, tra linearità del tempo e casualità dell’azione.
Nelle Navate e nel Cubo è allestita una bellissima mostra del polacco Miroslaw Balka.
Balka, nato nel 1958, è abituato ai grandi spazi, tanto da avere occupato nel 2009, con una sua opera, l’area altrettanto enorme della Turbine Hall presso la Tate Modern a Londra. La mostra si intitola “Crossover/s” e già questo titolo sottende la complessità del suo lavoro, perché può significare attraversamento/i ma anche (e qui siamo vicini a una ferrovia) scambio/i. Quindi un percorso di passaggio ma anche un cambio di direzione. Passaggio nel tempo, sia avanti che indietro, e pensiamo a quale peso di storia e a quali retaggi culturali possa portarsi dietro un polacco; cambio di direzione perché la visione di Balka immagina anche un’uscita positiva dai grumi di tragedia che, provenendo dal passato, incrostano ancora il nostro presente. Nella libreria dell’Hangar c’è una scelta di volumi e dischi che hanno segnato e influenzato l’artista: “La banalità del male” di Hannah Arendt; le poesie di Paul Celan; “Quel che resta di Auschwitz” e “La comunità che viene” di Giorgio Agamben; “Ritratto dell’artista da giovane” di Joyce; “Shoah” di Claude Lanzmann (libro e film); poi Beckett, musica concreta… In tempi di globalizzazione, quindi, un artista impregnato di cultura europea, segnato dalla nostra storia. La mostra si compone di diciotto opere, numero che, ha osservato Balka, risulta per lui altamente simbolico perché si compone di uno, l’unità, l’individualità, e otto, simbolo dell’infinito e quindi della moltitudine: dall’uno ai tanti. L’artista lavora partendo da sé, dal proprio essere spirituale ma anche dal proprio corpo, dallo spazio che occupa. Così molte opere sono proporzionate alle misure di 190 centimetri (la sua altezza) e 250 centimetri (altezza più massima estensione del suo braccio in alto). Fino al 1990 Balka era uno scultore tradizionale: realizzava statue figurative, corpi riconoscibili. Oggi il corpo non si riconosce nelle sue sculture ma, egli dice, rimane l’origine del suo operare: ne rimane il ricordo, l’ombra. Inoltre l’artista chiede al visitatore un ruolo attivo. Le sue sculture vanno esperite sensorialmente, bisogna attivare tutti i sensi; la vista: così, ad esempio, invita a percorrere un corridoio che a un certo punto descrive un angolo retto a destra. Man mano che si avanza aumenta il calore e diminuisce la luce. Quando si volta a destra il buio è completo: siamo a disagio. il calore aumenta, non abbiamo riferimenti. C’è un messaggio politico: stiamo attenti, la destra porta all’oscurità. Un altro lavoro è una grande croce realizzata con grate metalliche. Anche qui si entra, si percorrono i bracci. Nei punti in cui Cristo fu ferito grandi ventilatori emettono aria fresca: il percorso porta quindi a un sollievo, rilegge la crocifissione come un viaggio verso la speranza. Un altro lavoro consiste in un lunghissimo filo metallico che scende dall’alto e appoggia una parte al pavimento. A intervalli regolari una molla scatta con rumore e la parte di filo a pavimento si muove circolarmente, descrivendo, in mezz’ora, un intero cerchio. Qui il riferimento è a Heidegger, “Essere e tempo”: la solitudine, il percorso ciclico ineluttabile, il senso di sé… Così tutta la mostra è un solo percorso. All’entrata, toccando le tende per accedere alla sala, si avverte un forte calore che subito ci coinvolge e ci invita ad attivare i sensi. La sala, enorme, appare quasi completamente buia, le opere sono illuminate in modo fioco, le pareti sono del tutto oscurate, non c’è luce naturale. Ci si muove lentamente, con circospezione. Ci introduce un lavoro che Balka ha realizzato disponendo a terra 178 zerbini usati, che l’artista ha raccolto con un’inserzione, invitando a scambiarli contro uno nuovo. Così questi zerbini raccolgono in sé una storia, sono stati il punto di passaggio dagli spazi comuni, collettivi, alla individualità di un essere, di una famiglia. L’installazione più imponente ha un titolo tedesco che, tradotto, significa: “percorsi per il trattamento del dolore”. E’ un enorme recipiente, altissimo, incombente, nel quale dall’alto un tubo riversa, con forte rumore, un’acqua nerastra. L’opera ha una valenza drammatica, si pone come negazione del ruolo pubblico, positivo della fontana, dell’idea dell’acqua che purifica e rigenera. Sembra indicare l’orrore della storia che abbiamo alle spalle e voler dire che solo la coscienza e la visione di questo orrore potranno permetterci di proseguire il cammino. Sembra rispondere al famoso enunciato di Adorno secondo cui, dopo Auschwitz, nessuna poesia, nessuna forma d’arte, nessuna affermazione creatrice è più possibile. Su questa affermazione aveva riflettuto il poeta Paul Celan, che aveva usato una parola ebraica per designare ciò che resta, la pietra che era rimasta dopo la distruzione del tempio di Salomone, dopo la nuova distruzione del tempio che aveva segnato l’inizio della diaspora. Il mattone era ciò che restava dopo la distruzione ed era ciò con cui si sarebbe ricostruito. Così Balka presenta come opera un semplice mattone, segno della sapienza dell’uomo, unità di costruzione e di speranza. Un altro lavoro in cui l’artista ha svolto un ruolo relazionale è stato realizzato con la procedura di quello degli zerbini, cioè chiedendo a cittadini di Varsavia di conferirgli le loro saponette usate in cambio di nuove. Naturalmente anche la saponetta ha fortemente a che fare con l’intimità del corpo, e il fatto di raccoglierne centinaia, impilarle in un’altissima colonna conferisce all’opera   diversi significati: da una citazione della storia dell’arte (la colonna senza fine di Brancusi) all’invito ad abbandonarsi alle sollecitazioni olfattive, alla riflessione sul fatto che tutti i corpi sono uguali, emettono gli stessi umori, espellono le stesse impurità. Un altro lavoro, verso la fine, è ancora un corridoio che siamo invitati a percorrere e propone ancora un uso dei sensi perché tutte le pareti, fino all’altezza di un metro e novanta, cioè quella del corpo dell’artista, sono rivestite di una sostanza chiara che ha un odore che siamo invitati a riconoscere. Si tratta di sapone da bucato, che conferisce alle pareti un colore giallognolo. Il sapone, dice Balka, è il primo prodotto con cui un neonato viene a contatto e l’ultimo con cui un morto viene lavato prima della sepoltura, quindi è agli estremi della nostra vita. Inoltre, è sostanza che purifica, anche simbolicamente. Dopo questo percorso, attraverso un passaggio aperto solo parzialmente, si accede all’ultimo ambiente, il Cubo. Qui si esce dal buio e ci si trova immersi in una forte luce. A tutta prima non si individua l’opera che lo occupa. Guardando meglio, in mezzo, si scorge un sottile filo giallo che scende dall’alto fino a toccare il pavimento: tutto qui. Il filo ci parla nuovamente del singolo uomo, della sua fragilità ma anche della sua unicità e dell’indispensabilità del suo esserci. L’intera mostra può essere interpretata come una poesia e, riprendendo un verso di Holderlin citato da Heidegger: “Poeticamente abita l’uomo su questa terra”.

Sauro Sassi



L’Hangar Bicocca si trova in area periferica, in via Chiese 2, è aperta da giovedì a domenica dalle 10 alle 22 (chiusa da lunedì a mercoledì), l’ingresso è gratuito e consiglio di consultare il sito della mostra per poter partecipare alle interessantissime visite guidate tenute dal personale interno, al costo di sei euro (non occorre prenotare). C’è anche un ristorante, ricavato in quella che era la mensa della fabbrica. Per arrivare coi mezzi pubblici si prende la nuova linea 5 del metro (linea Lilla, si può prendere a Garibaldi oppure a Zara dove incrocia la linea 3 (linea gialla, che passa dalla stazione centrale e da piazza Duomo). Si scende a Ponale e si può prendere il bus n. 51, direzione Cimiano, scendendo alla fermata via Chiese Hangar Bicocca (si può anche andare a piedi, la strada è rettilinea e sono poche centinaia di metri). Se si arriva in auto ci sono ampie possibilità di parcheggio libero. Vicino all’Hangar c’è anche un centro commerciale con diverse possibilità per mangiare. Consiglio Coop for Food, a fianco del supermercato Coop, dove con 10 euro si può fare un pasto completo.
La mostra di Miroslaw Balka termina il 30 luglio 2017. Quella di Rosa Barba l’8 ottobre.
Sito internet, da consultare anche per le visite guidate: www.hangarbicocca.org







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