ELISEO MATTIACCI AL FORTE DI BELVEDERE A FIRENZE : UNO SCULTORE PROTESO VERSO IL COSMO

LE SCULTURE DI MATTIACCI MI RICORDANO  IL MONOLITE DI ODISSEA NELLO SPAZIO, COSI' PROTESE VERSO IL CIELO MA CON UNO SGUARDO AMMICCANTE ALLA CITTA' DI FIRENZE E ALLE COLLINE TOSCANE.
GRANDE SAURO SASSI CHE NE HA COLTO L'ANELITO E LA SPIRITUALITA' TUTTA DA SCOPRIRE. 

GONG DI ELISEO MATTIACCI AL FORTE DI BELVEDERE A FIRENZE. UNO SCULTORE PROTESO VERSO IL COSMO

Il Forte di Belvedere è uno dei luoghi più suggestivi di Firenze. Si trova su una lieve altura, immediatamente sopra il giardino di Boboli, a cui è collegato. Fu costruito per difendere la città da possibili assalti ma non ci fu mai occasione di utilizzarlo. Conformemente al suo nome, offre una vista stupenda sulla città, con il Palazzo Vecchio, Il Duomo con la Cupola di Brunelleschi e il Campanile di Giotto che sembrano quasi a portata di mano, così come la chiesa di Santa Croce. Dall’altro lato, uno splendido paesaggio collinare, con il Piazzale Michelangelo e la chiesa di San Miniato. Al centro dello spazio, una Palazzina elegante, che ospita un bar e permette un punto di osservazione ancora un po’ più alto. Un luogo simile si presta a mostre di sculture di grandi dimensioni nelle zone a prato e a opere più ridotte nella Palazzina, i cui spazi non sono molto grandi. Naturalmente il compito di confrontarsi con tanta bellezza del passato può mettere in crisi molti artisti contemporanei ma, se il confronto regge, ne sancisce la grandezza. Chi ha avuto la fortuna di vederla, ricorda ancora la mostra dell’inglese Henry Moore nel 1972, dove un artista moderno ma con forti legami con la classicità, a partire dall’uso del marmo di Carrara, riuscì meravigliosamente a intessere un dialogo coi sublimi paesaggi naturali ed umani. Io ricordo, alcuni anni più tardi, una mostra dell’israeliano Dani Karavan che, usando strumenti assai meno consueti, compresa la luce laser, ottenne comunque uno splendido risultato. A tutti è rimasto impresso il fascio di luce che di notte, dal Forte, raggiungeva la sommità della Cupola di Brunelleschi, a sancire uno splendido dialogo tra antichi monumenti attraverso l’arte contemporanea. Col tempo l’attività espositiva del Forte diminuì, fino a interrompersi, per riprendere poi negli ultimi anni, in cui ha ospitato l’italiano Giuseppe Penone, l’inglese Antony Gormley, il belga Jan Fabre. Mostre molto belle di grandi protagonisti dell’arte dei nostri tempi. Quest’anno si rende omaggio a uno dei maggiori scultori italiani, Eliseo Mattiacci, e la mostra si può ricollegare a quella in corso a Palazzo Strozzi, dedicata all’arte italiana tra il 1945 e il 1968. Mattiacci, nato nel 1940 a Cagli, nelle Marche, fu da giovane protagonista di quella stagione che, superando l’Informale che aveva dominato gli anni Cinquanta e opponendosi alla commercializzazione della Pop Art, proponeva un’arte dal forte impatto fisico, con l’uso di materiali grezzi e comuni, sia naturali, come piante e animali, che artificiali, come cemento e metalli grezzi, chiedendo al pubblico, in tempi di crescente impegno sociale, una partecipazione attiva, un coinvolgimento in un’opera che, per sua natura, non doveva produrre godimento estetico ma desiderio politico di trasformazione del reale. Mattiacci si trasferì a Roma che, con Torino e Milano, era la città italiana con maggior fermento artistico e intellettuale. Nel 1967 la Galleria La Tartaruga, una delle più innovative, gli dedicò una personale e in quella occasione l’artista portò in galleria un tubo snodabile smaltato di colore giallo (giallo Agip) lungo 150 metri. L’opera era l’atto di trasportare il tubo per strada fino alla galleria (Michelangelo Pistoletto aveva fatto una cosa simile con una grande palla di carta pesta), la disposizione nella sala, che ovviamente poteva variare modificando lo spazio e il rapporto col visitatore. La scultura da statica diventava dinamica, eliminando il supporto e creando un flusso di energia. Oggi l’opera si trova riproposta in una sala della Palazzina, assieme a lavori storici di Mattiacci e a molti disegni che rivelano bene la genesi del suo processo creativo. Il prato della Fortezza ospita, invece, una ventina di sculture di grandi dimensioni, in acciaio corten, di realizzazione più recente, che dialogano col paesaggio. Inizialmente Mattiacci fu accomunato al movimento denominato, dal critico Germano Celant, “Arte Povera”. Il nome era stato derivato da quello usato dal regista polacco Jerzy Grotowski per designare un teatro che si liberava da tutti gli orpelli borghesi (scene, recitazione stereotipata, grandi apparati rappresentativi) per mettere al centro il corpo dell’attore. Così gli artisti di Celant si opponevano all’arte convenzionale, all’estetica, al compiacimento, usando materiali volgari inserendo anche azioni e chiedendo al pubblico partecipazione. Mattiacci, che assemblava pezzi di metallo, spesso trovati tra scarti e rifiuti, aveva punti di convergenza con artisti come Gilberto Zorio, Giovanni Anselmo, Mario Merz, Jannis Kounellis, non solo per i materiali utilizzati ma per il fatto di mettere al centro del proprio lavoro l’idea di energia: energia che nasceva da reazioni chimiche, da torsioni della materia, dall’elettricità, dal fuoco, dal magnetismo, anche dalle scienze matematiche, come la scala di Fibonacci usata da Merz per rappresentare le forze della natura che si sviluppano con sempre maggior velocità secondo lo schema della spirale. Si può dire che Mattiacci cercasse di rendere dinamica una delle forme di arte più apparentemente statiche, la scultura. Così troviamo nella palazzina un lavoro intitolato “Onda di vuoto” in cui due elementi concavi di metallo si fronteggiano creando una tensione, come se prima o poi potessero staccarsi dalla propria base e riunirsi. Mattiacci volle però staccarsi dal movimento dell’Arte Povera, per mantenere la propria individualità ed autonomia, proseguendo, comunque, in un percorso parallelo a quello degli artisti che ho ricordato in precedenza. Per riassumere il clima che, intorno al 1968 si respirava a Roma ricordo il ruolo della galleria d’arte L’Attico che aprì una sede in un garage, ospitando anche importanti artisti internazionali, poeti, danzatori che creavano un clima di rivoluzione artistica e culturale. Nel gennaio 1969 Jannis Kounellis realizzò una mitica mostra portando nel garage- galleria dodici cavalli vivi. Dopo soli due mesi Mattiacci entrò nella stessa galleria con un rullo compressore, stendendo una striscia di asfalto sul pavimento. Interventi che suscitarono enormi discussioni sul significato artistico degli stessi e, naturalmente, grande scandalo. A distanza di anni sia Kounellis che Mattiacci sono riconosciuti tra i grandi artisti italiani del dopo guerra. Ricordo che  l’Attico chiuse nel 1976, riconoscendo che una stagione eroica della ricerca artistica si esauriva, con l’ultima azione provocatoria: lo spazio della galleria venne allagato. Si entrava negli anni di piombo e poi nel riflusso. Mattiacci ha proseguito il suo lavoro, realizzando anche numerose opere pubbliche, spesso monumentali, che si possono vedere soprattutto nelle sue Marche, a Cagli, a Pesaro (bellissima e suggestiva la stele “Riflesso dell’ordine cosmico”, nel molo del vecchio porto). Ha mantenuto il suo interesse per l’energia ma rivolgendosi all’intero universo. Il suo sguardo si è alzato verso il cielo e le sue sculture vogliono dialogare col cosmo. Così le venti grandi opere sul prato del Forte Belvedere esprimono questa tensione verso uno spazio che vorrebbero raggiungere, liberandosi dal peso e dalla gravità (Mattiacci dice che gli piacerebbe mandarle in orbita). In un caso, ironicamente, intitola un’opera “Scultura che guarda il paesaggio”, conferendole statuto umano. Sintetizza in generale il punto di vista dell’artista il lavoro intitolato “Fulmine-Saetta”: un fulmine rosso (rosso Ferrari) si solidifica e si pianta sul prato, davanti alla collina di Arcetri, dove aveva vissuto e operato Galileo. L’opera, come da descrizione, posizionata sul terreno come da uno sciamano (Mattiacci, anche fisicamente, lo è), attraversata da un potente flusso di energia, funziona da axis mundi, collegando il mondo sotterraneo e ctonio con quello superiore della volta celeste. Segnalo infine, all’entrata della palazzina, un’altra opera storica: “Recupero di un mito”, dedicata agli indiani nativi d’America. Due stanze sono interamente coperte di sabbia, a ricordare la loro usanza di realizzare effimeri disegni con questo materiale. Alle pareti, foto di appartenenti a varie tribù e, tra esse, anche dello stesso Mattiacci che, evidentemente, si identifica in questo popolo di uomini vinti ma orgogliosi e che forse ci possono ancora insegnare qualcosa sul futuro.

 SAURO SASSI



ELISEO MATTIACCI: “GONG”
FIRENZE FORTE BELVEDERE.
ORARI: MARTEDI’-DOMENICA: 11-20. FINO AL 14 OTTOBRE
BIGLIETTI: INTERO EUR 3, RIDOTTO 2 (18-25 ANNI, BIGLIETTI MUSEO DEL NOVECENTO). INFERIORI A 18 ANNI GRATUITO.
LA FORTEZZA SI PUO’ RAGGIUNGERE A PIEDI CON UNA BELLA PASSEGGIATA ATTRAVERSANDO PONTE VECCHIO IN DIREZIONE PALAZZO PITTI. DOPO POCHI PASSI SI INCONTRA LA CHIESA DI SANTA FELICITA, DOVE BISOGNA ENTRARE PER VEDERE LA STUPENDA DEPOSIZIONE DI PONTORMO, RECENTEMENTE RESTAURATA. SI IMBOCCA QUINDI A SINISTRA, IN SALITA, COSTA SAN GIORGIO, SI FIANCHEGGIA VILLA BARDINI, COL BELLISSIMO GIARDINO VISITABILE E SI GIUNGE ALL’ENTRATA, AI PIEDI DEL FORTE. UN ALTRO PERCORSO, PER CHI ACQUISTA IL BIGLIETTO PER IL GIARDINO DI BOBOLI, PERMETTE DI PRENDERE L’USCITA SUPERIORE DELLO STESSO, CHE SI TROVA PROPRIO AI PIEDI DELLA FORTEZZA

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