MATERIA E SPIRITO NELL’OPERA DI JEAN DUBUFFET
A
Palazzo Magnani di Reggio Emilia è allestita una mostra
molto bella su un artista tra i più importanti del Novecento, il francese Jean Dubuffet (1901-1985). La mostra è importante perché attraversa tutto il suo
percorso creativo, che ha due caratteristiche particolari: è iniziato tardi (la
prima personale risale al 1944,
quando aveva già 43 anni); è proseguito,
da allora fino alla morte, sempre con grande freschezza, una inesausta capacità
di rinnovarsi e senza quelle cadute che spesso hanno caratterizzato il lavoro
tardo di altri grandi artisti. Dubuffet
giunse a decidere di essere artista, chiudendo la sua precedente attività di
commerciante di vini, attraverso un lungo percorso interiore, che solo alla
maturazione gli permise di trovare la sua strada espressiva. Prima era un buon
pittore, un ottimo disegnatore, come si vede da un ritratto in mostra
realizzato sui vent’anni, ma non aveva originalità. Alle origini della sua
meditazione ci sono le definizioni di cultura
e artista. Dubuffet ritiene che la cultura, con le sue regole, sia ciò che
impedisce la vera espressione artistica. L’artista non è un uomo eccezionale,
un genio, ma un individuo comune che, proprio liberandosi dai lacci culturali,
può esprimere la sua creatività. Quindi si interessa a quelle categorie umane
che, non avendo statuto sociale, non cercando l’affermazione personale, non
volendo dimostrare qualcosa agli altri ma solo a se stesse, realizzano
un’espressione spontanea e perciò libera ed alta: i bambini, i popoli
primitivi, soprattutto i pazzi. Frequenta manicomi e inizia a raccogliere le
opere dei folli, coniando il termine Art
Brut, che non significa arte brutta o volgare ma arte al di fuori dei
vincoli della cultura. Cerca poi nell’arte ufficiale dei riferimenti tecnici,
per elaborare un suo proprio modo espressivo. Ritiene che alla base della sua
produzione debba esserci la materia,
quella più bruta e grezza, la più “reale”. Dentro la materia si sviluppa il linguaggio, che, scavando, incidendo,
rivela segni, dà forse vita a un principio di discorso, attraverso figure
deformate, incerte. Dubuffet
manipola la materia come il suo amico scrittore Quenau manipola la lingua: il discorso che ne scaturisce è embrionale,
ambiguo, irrisolto, ma vivo. Dice: “Un
dipinto mi interessa finché riesco ad accendere in esso una specie di fiamma,
la fiamma della vita … e da quel
momento mi pare che abbia acquistato proprio quella “vita”, voglio dire quella “realtà”.
Guarda a Masson che inserisce sabbia
e materia nella preparazione della tela, guarda ai frottages di Max Ernst,
che sfrega con una matita un foglio appoggiato su un oggetto per farne emergere
la traccia. Guarda soprattutto al primo Paul
Klee, quello primitivista, e sicuramente si riconosce in questa sua frase: “Contemplo il creato da un punto di vista
remoto, primigenio, secondo formule preconcette che abbracciano a un tempo
l’uomo, l’animale, la pianta, il minerale, gli elementi, tutte le forze operanti dell’essere”. Inizia così il primo dei tre cicli in cui si è soliti
dividere il suo lavoro, quello della
natura e della materia, che va dal 1942
al 1962. La materia costituisce la
base del dipinto, ed è sabbia, ciottoli, minerali, foglie, rami, anche ali di
farfalla. All’interno di questa fase si possono poi distinguere 24 periodi,
a loro volta suddivisi in varie serie.
In alcuni casi la materia rivela solo se stessa, è l’unico oggetto della tela.
Altre volte affiora un’immagine, incerta, che può ricordare un graffito su un
muro o un disegno infantile, che rappresenta uomini o animali. Una serie
famosa, quella dei “Corps de dame”,
sembra avere tangenze, nella sua figurazione oscena e deformata, con le donne
dipinte da De Kooning negli Stati
Uniti. In tutta questa fase (che coincide temporalmente con la diffusione dell’arte
cosiddetta Informale), assistiamo a
una lotta incessante tra materia e forma,
dove non c’è mai una prevalenza assoluta di una o dell’altra. Le immagini che
affiorano dalla materia possono apparire buffe ma in realtà hanno un contenuto
tragico, conforme alla visione esistenzialista, al teatro dell’assurdo del suo
amico Ionesco. Come dice lo storico
dell’arte Giulio Carlo Argan: “Dubuffet è il solo artista che
abbia veduto nel comico un aspetto rivelatore della condizione (tragica) della
coscienza moderna”. A partire
dal 1961 i suoi quadri, che hanno
sempre una forte base materica, cominciano a riempirsi di personaggi. Non sono
più singole immagini che sembrano emergere dal caos ma grandi quantità di
esseri che popolano una realtà che non è più quella della campagna dove l’artista
era vissuto ma quella urbana di una grande metropoli, Parigi. Appare evidente che il pensiero dell’artista si rivolge ora
a queste moltitudini, che invadono le strade, i negozi, i mezzi di trasporto. Dopo aver redatto per vent’anni una grande enciclopedia
della materia, ritiene esaurita questa fase del suo lavoro e cerca una svolta,
che arriva un giorno quando, nel corso di una lunga e noiosa conversazione al
telefono, inizia a tracciare dei segni su un foglietto con una biro rossa e
blu. Nasce così uno stile del tutto nuovo e una parola che lo designa: “L’Horloupe”. Questa parola non esiste
nei vocabolari di nessuna lingua, l’ha inventata Dubuffet, prendendo esempio dai giochi linguistici dell’amato Alfred Jarry (creatore di “Ubu roi”) e del suo amico scrittore Raymond Queneau. La parola richiama per assonanza quelle di urlare, ululare, turlupinare. La tela non accoglie più la materia ma il
segno, un segno che si basa su pochi colori (blu, rosso, nero, bianco), che si allarga ed espande in modo rizomatico
provocando una vertigine visiva in cui uomini e cose si confondono di continuo.
Come scrive la critica d’arte Lorenza
Trucchi “Con L’Hourloupe Dubuffet lascia la sfera naturalistica ed entra in
quella dell’uomo tecnologico”. Il segno sembra voler invadere il mondo:
parte dalla tela ma poi ne esce, diventa tridimensionale, in sculture sempre
più grandi, come quelle per la Chase
Manhattan Bank di New York o lo splendido “Jardin d’émail” nel parco del museo Kroller Muller di Otterloo, in Olanda,
che diventa un labirinto da percorrere e in cui perdersi. Ma ancora non basta,
e quindi l’artista, che ha anche conoscenze musicali, invade anche lo spazio
sonoro, incidendo una serie di dischi in cui, utilizzando diversi strumenti,
produce un suono sgraziato, ossessivo, che qualcuno ha paragonato al lavoro sul
rumore di John Cage. Ma le forme di Dubuffet, umane, non umane, disumane
vogliono anche muoversi nello spazio fisico e così viene realizzato il “Coucou Bazar” (documentato in mostra),
evento teatrale in cui mancano gli attori, sostituiti da persone che indossano
costumi che riprendono i quadri dell’Hourloupe
e si muovono in scene anch’esse tratte dagli stessi quadri, senza un testo e
con una base musicale dello stesso Dubuffet.
Un balletto meccanico, che può suscitare allegria per i colori e i tratti buffi
oppure angoscia, nella ricerca di un qualsiasi tipo di senso. Il ciclo dell’Hourloupe venne consacrato da una
mostra a Palazzo Grassi a Venezia, nel
1964 e si protrasse fino al 1974. Dopo iniziò la terza ed ultima
fase dell’artista. Quando Dubuffet
sentì esaurita anche la fase de l’Horloupe,
ed aveva già più di settant’anni, non esitò a rimettersi nuovamente in gioco,
con inesausta forza creativa. Se la
prima fase era stata quella della
materia, la seconda quella del segno, la terza fu quella del colore. Il
colore segnava le grandi tele sulla quale si affacciava nuovamente e
ossessivamente la figura umana: fantocci, caricature, spesso realizzati
ritagliando opere precedenti e incollandole a realizzare serie come “Théatres
de mémoire”, ispirate alla lettura del libro di Frances Yates sull’arte della memoria. La memoria non si presenta
come una sequenza temporale, logica, di ricordi, ma come una serie di lampi,
luoghi da cui emergono, contemporaneamente, figure, situazioni. I personaggi
che affiorano in massa in questi quadri sono caricaturali come disegni
infantili e sembrano lacerti di ricordo fissati sulla tela. In certi momenti
sembra che le due fasi precedenti dell’artista si mescolino. Poi, negli anni
successivi, anche le ultime goffe figure umane scompaiono e la tela viene
sopraffatta dal colore e da un segno che ormai si diffonde liberamente. Non c’è
più storia, l’inconscio erompe senza più riferimenti diretti al visibile e al
reale. Si chiude così il percorso di un grande artista del ‘900, come tutti i
grandi inclassificabile, non inseribile in una casella o mummificabile nelle
stanze asettiche di un museo. La sua lezione ha influenzato e preceduto, solo
per fare un esempio, i graffitisti americani, come Keith Haring e Jean Michel
Basquiat. La mostra di Reggio Emilia
ripercorre tutta la sua vita creativa, riservando anche una iniziale stanza
introduttiva dedicata all’Art Brut,
l’arte di chi non appartiene al sistema dell’arte, che ha rappresentato la base
di partenza per la meditazione di Dubuffet.
JEAN DUBUFFET L’ARTE IN GIOCO – MATERIA
E SPIRITO (1943-1985)
FONDAZIONE PALAZZO MAGNANI REGGIO EMILIA,
CORSO GARIBALDI 29 – FINO AL 3/3/2019
ORARI: DA MARTEDI’ A GIOVEDI’ 10-13
15-19 VENERDI’ SABATO DOMENICA E FESTIVI 10-19. CHIUSO IL 31 DICEMBRE 2018
BIGLIETTI: INTERO 12 EURO RIDOTTO 10
EURO (OVER 65, ARCI, DIVERSAMENTE ABILI) STUDENTI 6 EURO. 2X1 CARTA FRECCIA PIU’
BIGLIETTO FRECCE
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