FOTOGRAFARE L’UOMO CHE LAVORA E MUTA L’AMBIENTE



FOTOGRAFARE L’UOMO CHE LAVORA E MUTA L’AMBIENTE



La Fondazione MAST di Bologna, nata nel 2013 dalla volontà dell’imprenditrice Isabella Seragnoli, conduce una intensa indagine sulle attività produttive umane attraverso gli strumenti della visione, a partire dalla fotografia. Nella bellissima sede, che accoglie i visitatori con una spettacolare scultura specchiante di Anish Kapoor e ospita anche lavori di Mark di Suvero, Robert Indiana, Donald Judd, Olafur Eliasson, Julian Opie, si susseguono mostre e attività didattiche, rivolte anche alle scuole e ai bambini, per suscitare attenzione verso il mondo del lavoro, la tecnologia, il possibile sviluppo industriale. Ciò non può non partire dal documentare cosa è stato il lavoro nel passato, per poter poi affrontare un presente e un futuro portatori di grandi mutamenti. Ogni due anni la Fondazione si espande nella città, dando vita alla rassegna Foto/Industria, in cui l’analisi su industria, lavoro e come la produzione agisca sull’ambiente si allarga in diversi e splendidi spazi storici, consentendo così il doppio piacere di vedere opere di grande interesse e scoprire luoghi che, spesso, gli stessi bolognesi ignorano. In questa quarta edizione le mostre sono dieci e si collegano a quella da tempo in corso, con enorme successo, nella sede del Mast, intitolata “Antropocene”. Si può dire che due siano le linee conduttrici: da un lato una ricognizione su alcune situazioni lavorative del passato, con fotografi che fanno ormai parte della storia di questo linguaggio; dall’altro l’analisi della situazione presente e, in prospettiva, futura, con un mondo produttivo investito da una rivoluzione che ridisegna completamente le modalità, i ruoli, le figure professionali, l’organizzazione del lavoro, i suoi luoghi. A questo si aggiunge la considerazione, sempre più presente, di come l’attività produttiva dell’uomo, a partire dalla rivoluzione industriale di fine Ottocento, stia influendo sul mondo in cui viviamo, modificandolo profondamente e ponendo la questione della sostenibilità di questo sviluppo.
Si può iniziare la visita dall’Oratorio di Santa Maria della Vita, luogo bellissimo che si trova a fianco della chiesa omonima, dove tutti i turisti vengono condotti ad ammirare il “Compianto sul Cristo Morto” di Niccolò Dell’Arca, ma spesso ignorano la sala ricoperta di affreschi, tele e stucchi al piano superiore, con il teatrale “Transito della Vergine” cinquecentesco di Alfonso Lombardi, e la pala con “Madonna col bambino e Santi” del Nosadella. Qui sono esposte le foto di Lisetta Carmi, che negli anni ’60 documentò il porto di Genova e lo stabilimento Italsider. La Carmi, all’epoca, era molto giovane. In seguito è divenuta una delle più importanti fotografe italiane, abbandonando poi la fotografia per abbracciare e praticare la fede buddista. Il lavoro a Genova fu fatto con l’appoggio del sindacato, che le permise di accedere a luoghi solitamente vietati agli estranei. Impressionanti le foto degli altiforni, che richiamano vicende tuttora di grande attualità. Oltre all’allestimento, bellissimo in tutte le sedi espositive, accompagnano la visita le note dell’opera “La fabbrica illuminata” di Luigi Nono, che ci ricorda come, in quegli anni, intellettuali e artisti erano molto attenti al mondo del lavoro. Si può proseguire lo sguardo sul passato alla vicina Fondazione Carisbo, dove possiamo ammirare scatti di uno dei più importanti fotografi mondiali, André Kertész. Nella prima metà del Novecento nacquero, in Ungheria, alcuni grandi fotografi: Robert Capa, Gerda Taro, Brassai e, appunto, Kertesz, che, rispetto agli altri, dedicò una grande attenzione alla forma, con inquadrature particolari, composizioni rigorose dove lo stile prevaleva sull’oggetto della rappresentazione.  Nel 1936, abbandonò Parigi per la turbolenza politica europea e si trasferì a New York, dove rimase per il resto della vita. Anche se il suo sguardo lo portava a riprendere le cose banali del quotidiano, rendendole uniche e importanti attraverso lo stile, e quindi non sembrava il più adatto a eseguire foto industriali, accettò di documentare l’attività di due aziende, la Firestone e l’American Viscosa Corporation. Ne risultano immagini tecnicamente perfette, per niente celebrative, dove anche la presenza umana perde tutta la centralità e l’eroismo di quelle, ad esempio, della Carmi. Kertesz è affascinato dai giochi di luce su pneumatici e fili di tessuto, mentre i lavoratori appaiono un po’ in disparte. Viene in mente la sua celebre foto in cui, per ritrarre l’architetto Le Corbusier, mostrava su un piano i suoi occhiali e la pipa in assenza del corpo. Volendo proseguire la ricognizione sulla foto industriale del passato, si può andare alla Pinacoteca, dove sono esposti gli scatti di Albert Renger-Patzsch, eseguiti intorno al 1930 in quella che è stata una delle zone a più alto contenuto industriale del mondo: la Ruhr tedesca, fulcro dell’estrazione carbonifera e dell’industria metallurgica. Renger-Patzsch adotta un atteggiamento rigorosamente documentaristico, ritrae fabbriche, villaggi, scavi minerari, escludendo quasi completamente la presenza umana e il coinvolgimento emotivo, secondo la pratica di quel movimento artistico chiamato “Nuova Oggettività”. Questo modo freddo, analitico di praticare la fotografia avrà, poi, molti altri seguaci in Germania, dai coniugi Bernd e Hilla Becher ai loro allievi della scuola di Dusseldorf, oggi acclamatissimi, come Thomas Struth, Thomas Ruff, Candida Hofer. Le immagini di Renger Patzsch sono affascinanti, immergono questi luoghi, dove il lavoro umano pulsava, in una atmosfera di silenzio, che non può non confliggere col fatto che, in quegli anni, la Germania stava per cadere nel clangore del regime nazista e anche farci pensare come, oggi, tutta quella regione abbia perso lo statuto produttivo e sia diventata un grande parco di archeologia industriale. Sempre per rimanere a un uso tradizionale della fotografia, ma portato al periodo tra anni ’80 e inizio ’90, nell’affascinantissimo sito dei sotterranei del Palazzo Bentivoglio incontriamo quello che io ritengo il maggior fotografo italiano di sempre: Luigi Ghirri. Ghirri, che svolgeva il lavoro di geometra, iniziò a fotografare in modo amatoriale, entrò in contatto con giovani artisti della sua zona (tra Reggio Emilia e Modena) e si interessò ai movimenti artistici del suo tempo, dall’Arte Povera al Concettuale. Il suo talento fu presto riconosciuto, tanto da mollare il lavoro originario e diventare fotografo di professione. Sarebbe lungo descriverne la personalità ma si può dire che portò nella fotografia la poesia, ridefinì l’idea di sguardo, riscoprendo e rinnovando soggetti classici dell’arte come la natura morta e il paesaggio. Naturalmente doveva anche integrare il suo lavoro con commissioni da aziende che gli chiedevano, come già abbiamo visto con Kertesz, di pubblicizzare la propria attività. A Palazzo Bentivoglio abbiamo quattro committenti: Ferrari, Costa Crociere, Bulgari e Marazzi. La cosa interessante di queste foto di Ghirri è che egli non abbandonò minimamente il suo stile, non fece nulla per conformarsi alla corrente fotografia pubblicitaria. Ad esempio, mantenne la sua idea di ambiguità della visione, mostrando una fiammante Ferrari che, solo a uno sguardo più attento, si rivelava un’auto giocattolo con alla guida un bambino; oppure una grande nave da crociera emergere a fatica da una coltre di nebbia (elemento a lui molto caro); o oggetti ritratti contro una parete di ceramica le cui dimensioni risultavano falsate alla visione; o, infine, i laboratori in cui si allestivano gli elementi per un negozio di Bulgari a New York, con l’attenzione concentrata sugli strumenti artigianali, in una luce polverosa e con la presenza umana assai poco rilevante. Chi si interessi di arte contemporanea può facilmente individuare le relazioni di Ghirri con artisti del tempo. Le altre mostre ci portano, in vari modi. nel presente, a volte anche nel futuro. Emerge un’idea di lavoro del tutto diversa, non più legata alla fabbrica, e che è in un rapporto strettissimo con una innovazione tecnologica sempre più rivolta all’immateriale, al virtuale e con un’idea di produzione che mette in discussione la posizione dell’uomo in rapporto all’ambiente che vive e che sempre più modifica, così come si modifica l’uomo stesso, andando verso un futuro forse più inquietante che attraente. Alla Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna il giovane angolano Délio Jasse ci mostra la città di Luanda, destinata a divenire una megalopoli, con una crescita senza regole che egli documenta con immagini riportate su supporti di acetato e altro, a volte non sue, perché il suo lavoro non è più quello riproduttivo del fotografo tradizionale ma quello di lavorare sulle immagini per costruire un discorso. Due artisti ci pongono un interessante quesito sul tempo, sulla sua circolarità o linearità. David Claerbout, a Palazzo Zambeccari, ci mostra un monumento del passato, lo stadio Olimpico di Berlino, in cui i nazisti vollero celebrare i loro trionfi sportivi alle Olimpiadi del 1936. Questa costruzione, che si voleva vivesse in eterno, viene ricostruita digitalmente dall’artista, inserita in un contesto atmosferico reale, con la luce del giorno che si alterna al buio della notte e, con un programma informatico, mostrato mentre lentamente viene circondato dalla vegetazione che, nel tempo, lo sommergerà, ripristinando un ciclo naturale. Allo spettatore del video si chiede di sedere, osservare questo lento processo, sentire il tempo. Anche il video di Stephanie Syjuco al Mast ha a che fare col tempo. L’artista si rifà a un filmato pionieristico che alcuni tra gli iniziatori del cinema muto americano eseguirono nella città di San Francisco, montando una cinepresa sul davanti di un’auto e attraversandone il centro. Lo spettatore aveva l’impressione di trovarsi alla guida dell’auto e osservare il paesaggio urbano, ma il filmato fu realizzato nell’aprile 1906, pochi giorni prima che la città fosse distrutta da un terremoto. Quindi quel paesaggio non esiste più. Syiuco compie nuovamente lo stesso percorso oggi, ma in modo virtuale, usando Google Earth, che elimina la presenza umana e riproduce i mezzi di trasporto e la vegetazione distorcendoli e creando un effetto di paesaggio esploso. La zona, ovviamente ricostruita dopo il terremoto, ha subito un altro pesante intervento urbanistico quando diverse imprese della Silicon Valley hanno deciso di aprire uffici e sedi. Ciò che vediamo è quindi un paesaggio che ha subito una nuova trasformazione, questa volta non a opera della natura ma dell’uomo, che, però, risulta escluso dalla rappresentazione. Il percorso rettilineo creato dal programma confligge con un’idea di tempo che si ripete mentre le cose si modificano e ormai è l’uomo a determinare il paesaggio. Si rivolge a un futuro inquietante il lavoro di Matthieu Gafsou, splendidamente installato in una sala affrescata del Palazzo Pepoli Campogrande. Ci parla di un movimento, il “transumanesimo” che mira ad accrescere le capacità del corpo umano attraverso la scienza e la tecnologia. Si va da una cosa già diffusa come l’allargamento della capacità comunicativa attraverso lo smartphone, alla bio ingegneria, alla modificazione dei corpi con interventi sempre più invasivi, che arrivano ad alimentare l’idea di una vita infinita. Gafsou non esprime giudizi, documenta; però non si può non pensare che la moderna produzione, dopo che l’industria aveva sfruttato i corpi degli individui, miri a impossessarsi di quegli stessi corpi, in un processo che già Pasolini aveva immaginato e tragicamente descritto. Al Museo della Musica Yosuke Bandai si rivolge a un altro aspetto del presente: la produzione sempre più massiccia di rifiuti. Gli oggetti del nostro consumo, non solo cose ma anche resti animali, scartati, buttati in discariche, sono sempre più numerosi. Bandai li raccoglie e assembla, realizzando fragili sculture a cui conferisce vita duratura, riproducendoli fotograficamente. Le immagini sono colorate, a volte belle, altre inquietanti. Ci pongono il problema di questa marea proliferante. In un altro spazio splendido, la Biblioteca Universitaria, Armin Linke presenta un lavoro durato anni per parlare degli Oceani, di come l’attività umana li invada, dei soggetti industriali, economici, militari che agiscono modificandone la struttura e la percezione, non negando nemmeno uno sguardo storico allo studio dei fondali, che saranno un nuovo spazio di conquista e, si spera, non di stravolgimento da parte dell’uomo. Infine, a legare tutti questi discorsi, c’è la bellissima mostra intitolata “Antropocene” presso la sede del Mast. Attraverso le foto di Edward Burtynsky e i filmati di Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier possiamo interrogarci su come l’uomo stia sempre più trasformando il mondo naturale, tentando di conformalo alle esigenze di uno sviluppo che, per tornare a Pasolini, risulta sempre più lontano da un’idea di progresso. La mostra è spettacolare, con grandi foto, anche di realtà aumentata, che si animano con una applicazione viste attraverso tablet o smartphone. Ancora una volta lo sguardo dei fotografi è neutro, oggettivo. Mostrano le grandi miniere a cielo aperto, le discariche, le cave, la distruzione di foreste per far spazio a coltivazioni come le palme da olio. Le immagini sono talmente perfette e spettacolari da apparire belle ma è una bellezza falsa, dietro cui sono i danni, forse irreversibili, che stiamo causando alla natura.
Queste mostre ci parlano di lavoro, ambiente, sia con sguardo storico sul passato che in prospettiva futura, con uno strumento antico ma che si sta a sua volta radicalmente trasformando come la fotografia.

SAURO SASSI




IV BIENNALE DI FOTOGRAFIA DELL’INDUSTRIA E DEL LAVORO. Tecnosfera
BOLOGNA FINO AL 24/11/2019
TUTTI GLI INGRESSI SONO GRATUITI. OCCORRE UN PASS CHE SI PUO’ OTTENERE PRESSO UNA STRUTTURA ALLESTITA IN PIAZZA NETTUNO. LE DIECI SEDI ESPOSITIVE SONO RAGGIUNGIBILI A PIEDI.
LA SEDE DEL MAST, DOVE SI SVOLGE LA MOSTRA “ANTROPOCENE” FINO AL 5 GENNAIO 2020, IN VIA SPERANZA 42 E’ RAGGIUNGIBILE CON MEZZI PUBBLICI (AUTOBUS 13)
ORARI: MARTEDI’/DOMENICA DALLE 10 ALLE 19

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