Un’occasione per verificare i rapporti tra arte e storia è la mostra ospitata a Palazzo
Strozzi a Firenze, che copre un arco di quarant’anni di vicende dell’arte americana
del secondo dopoguerra. Si va dal 1961, nomina di John Kennedy alla presidenza, al
2001, abbattimento delle torri gemelle a New York. Kennedy rappresentò l’idea di
una nuova direzione della storia americana, e quindi mondiale, anche se in modo
meno lineare e più contradditorio di come semplicisticamente lo si descrive. In
primo luogo fu l’immagine del Presidente, giovane, bello, vitalistico a imporsi a
livello planetario e a far sperare in un mondo più giusto, più tollerante, più sicuro,
sotto l’ala forte ma benevola della grande democrazia americana. Un mondo a cui
gli Stati Uniti imponevano i propri modelli culturali, nell’arte, nella letteratura, nel
cinema come nei comportamenti veicolati dal consumismo. Gli Usa impiegarono in
primo luogo l’arma economica per diffondere la propria way of life, intuendo che
occorreva coinvolgere tanto i ceti popolari quanto le élites, la cultura alta e bassa.
Nacque la Pop Art, che in realtà, storicamente, era sorta prima in Gran Bretagna.
Come dice la parola, era l’arte popolare, che tutti potevano comprendere perché
recuperava la rappresentazione realistica delle cose e mostrava gli oggetti di
consumo, quelli della vita quotidiana: detersivi, minestre in scatola, patate fritte ma
anche immagini, quelle del cinema, della televisione, del fumetto. Il linguaggio del
consumismo diventava universale, riguardava tutti. Come disse Andy Warhol sia
l’uomo più misero che il grande magnate industriale avevano qualcosa che li
accomunava: una bottiglia di Coca Cola.
Tutte le opere in mostra a Firenze vengono dal Walker Art Center di Minneapolis
(città oggi evocativa, pensiamo a George Floyd) e sono di ottima qualità. Nella sala
della Pop Art ci sono i grandi protagonisti: Robert Indiana, Roy Lichtenstein, con
uno splendido quadro fumetto, omaggio a Matisse, Claes Oldenburg, con la scultura
di una pioggia di patatine fritte che cadono da un sacchetto; ma soprattutto Warhol,
artista assai più complesso di quanto solitamente si crede, con la riproduzione
scultorea di scatole di detersivo, l’immagine moltiplicata di una sedia elettrica (la
morte è spesso presente nelle sue opere, in modo più o meno esplicito), un lavoro
molto bello in cui riproduce serialmente foto ritratti alternati di Jackie Kennedy,
prima sorridente e, dopo l’attentato, sgomenta o dolorosamente composta. Con
quest’opera, che chiude la breve stagione di speranza dei primi ’60, si passa a una
sala successiva, dedicata alla cosiddetta Minimal Art. Dopo la morte di Kennedy le
cose si erano fatte più difficili e dolorose. La guerra in Vietnam iniziava a dispiegarsi,
i ragazzi non volevano morire in un paese lontano, in una guerra di aggressione. Le
istituzioni erano tornate a proporre vecchi modelli di comportamento e di vita: il
lavoro, le tradizioni, la scuola, la religione e, naturalmente, i consumi (una artista,
Barbara Kruger, che metteva alla berlina con messaggi simil pubblicitari questi
luoghi comuni, realizzò un manifesto con la scritta “I shop, therefore I am”). I giovani
si ribellarono a questo schema, con comportamenti dissacratori, contestando i
modelli di consumo e, quindi, anche la Pop Art venne messa in discussione perché
accusata di esaltare proprio quei modelli. La nuova arte reagiva al profluvio di
immagini della Pop negando le immagini stesse. Proponeva rappresentazioni
pittoriche astratte o sculture che si rapportavano con lo spazio ma senza voler
significare altro che i volumi che occupavano nello spazio stesso. Alcuni arrivarono a
far realizzare industrialmente i loro progetti, perché sostenevano che l’artista
doveva immaginare l’opera, progettarla ma non era tenuto a realizzarla
manualmente, si poteva delegare un artigiano. Così Donald Judd commissionava
scatole metalliche dipinte con uniforme vernice industriale che disponeva in
sequenza sulle pareti. Se Judd misurava la verticalità, Carl Andrè si occupava
dell’orizzontalità, disponendo a terra piastrelle metalliche a creare percorsi di
misurazione del pavimento; Richard Serra si occupava della gravità, realizzando
grandi sculture che, col loro peso e la loro collocazione, potevano interferire con la
libertà di movimento dello spettatore; Dan Flavin scolpiva con la luce, usando tubi al
neon, sempre di produzione industriale. Altri, come Ellsworth Kelly e Frank Stella,
dipingevano grandi tele astratte, praticando la serialità nel loro lavoro, volendo
eliminare qualunque emozione. Più poetiche le opere di Agnes Martin (finalmente
una donna) con astratte pitture delicatissime e di Fred Sandback che, con sottili fili
colorati e le ombre da questi proiettati sulle pareti, realizzava composizioni piene di
suggestione.
In questi anni, ma anche prima, operavano artisti che cercavano di unire varie
discipline: così vediamo il coreografo Merce Cunningham rivolgersi ai pittori Robert
Rauschenberg e Jasper Johns e al musicista John Cage per realizzare spettacoli in cui
si fondevano danza, arti visive e musica. In mostra due bellissimi filmati di balletti di
Cunningham (purtroppo non c’è una sedia per vederli comodamente) tra cui un
omaggio a Marcel Duchamp, nume tutelare di molta arte americana del
dopoguerra.
Una sala rende omaggio a quello che è considerato uno degli artisti più
rappresentativi del secondo Novecento (tuttora attivo), Bruce Nauman. Nauman
utilizza vari mezzi espressivi, dal video alle installazioni, ma mette al centro del suo
lavoro il corpo, che diventa esso stesso uno strumento per misurare e determinare
lo spazio, come facevano i minimalisti coi loro materiali industriali. Qui, in un video
su quattro, pareti Nauman, a petto nudo, dipinge il suo stesso corpo con strati
successivi di vernice, fondendo in una sola opera pittura, scultura, video,
performance.
L’ultimo movimento che negli anni ’70 intreccia la Minimal Art è l’Arte Concettuale.
Anche in questo caso c’è una rottura netta con la Pop Art, perché questi artisti
rifiutavano nettamente la rappresentazione, il rapporto con l’universo consumistico,
qualsiasi aspetto estetico. Per loro l’arte era L’idea, il progetto dell’opera, che si
poteva poi far realizzare da altri o addirittura non realizzare. Rappresentanti di
questa tendenza in mostra, Sol Lewitt e John Baldessari.
Con questi movimenti, che si pongono oggettivamente contro il consumismo e la
commistione tra arte, pubblicità, il debordare dei mass media, si chiudono gli anni
Settanta e si apre un’epoca che, negli Usa, è caratterizzata dalla presidenza di
Ronald Reagan, dall’affermarsi dell’economia, dal culto del privato, dalla fine delle
illusioni delle generazioni precedenti. Nell’arte non ci sono più movimenti con una
base teorica forte, con direzioni univoche. Alcuni artisti, soprattutto donne, tendono
a reagire denunciando il ruolo dei media nel proporre immagini e modelli di
comportamento stereotipati. Barbara Kruger usa il linguaggio dei manifesti
pubblicitari per criticarlo; Jenny Holzer scolpisce i suoi messaggi sul marmo o li
trasmette nei luoghi pubblici usando le luci al led; Cindy Sherman si trucca come i
personaggi dei film del passato per evidenziare il ruolo subalterno delle donne.
Un altro elemento sconvolge le vite in quel decennio, ed è il virus Hiv, che colpisce
soprattutto l’universo omosessuale, decimando artisti e loro amici e frequentatori.
Qui vediamo una fotografia di Robert Mapplethorpe, che perse la vita così come il
cubano di origine Felix Gonzales Torres, di cui è presente un’opera triste: una fila di
lampadine, che è un memento mori per lui e per il suo compagno, che morì prima di
lui, e per tutte le altre vittime, mentre possiamo vedere anche un lavoro di Robert
Gober, altro artista che è invece sopravvissuto alla malattia.
Gli anni Novanta vedono il ritorno alla presidenza di un democratico, Bill Clinton,
dopo Reagan e Bush. Politicamente cambia poco ma si impongono nuovi artisti che,
da un lato, propongono un nuovo immaginario barocco, criptico, debordante, ed è il
caso di Matthew Barney, che realizza una serie di film intitolati “Cremaster”,
numerati da uno a cinque ma non realizzati in questa successione temporale. Già la
parola, che indica un muscolo che sovraintende al movimento dei testicoli, risulta
misteriosa e fuorviante. Il contenuto è indescrivibile, tanto è pieno di nonsense,
simboli, immagini autoreferenziali. Un grande minestrone, tanto irritante quanto
affascinante, un condensato di riferimenti culturali, derive psichiche, incubi. In
mostra c’è la possibilità rara di assistere a un intero filmato del ciclo, quello che ha il
numero 2, che parte dalla storia di un assassino che uccise due persone senza
motivo e volle a tutti i costi che la sua condanna a morte fosse eseguita. Il caso di
Barney è anomalo e individuale, perché la maggioranza degli artisti di quel periodo
praticavano un’arte politicamente impegnata, incentrata sui problemi razziali e di
genere. Tra i presenti in mostra, vorrei citare il nativo americano Jimmy Durham, a
lungo attivista politico, che realizza composizioni usando elementi della cultura
indiana originaria. Una vena fortemente politica si sviluppa anche tra gli artisti
californiani. In particolare, Mike Kelley e Paul McCarthy realizzano lavori
fortemente provocatori per mettere alla berlina i comportamenti dovuti al
consumismo, la volgarità della società, i pregiudizi di tutti i tipi. Esilarante la serie di
fotografie di McCarthy presenti in mostra, che rivelano le analogie tra i modelli
inculcati ai bambini nella Germania nazista e a quelli americani in visita a
Disneyworld (del resto Hitler amava Disney). Come da titolo, la mostra si chiude con
Kara Walker, donna di colore. La sua pratica artistica consiste nel proporre immagini
che, a prima vista, appaiono belle, decorative, mentre, a un esame più attento, si
rivelano piene di violenza. La silhouette finale sembrerebbe una figura femminile
che fa una specie di balletto e invece è una donna nera che, dopo aver subito uno
stupro, si suicida tagliandosi le vene ai polsi.
Dopo il 2001, direi che l’arte americana tende a perdere la sua centralità ed
emergono nuovi paesi e nuove tendenze. Ma questa è un’altra storia e comunque
non si potranno più fare mostre dedicate a un singolo paese ma ai tanti che si
affacciano sulla scena globale.
SAURO SASSI
AMERICAN ART 1961 – 200 DA ANDY WARHOL A KARA WALKER
LE COLLEZIONI DEL WALKER ART CENTER DI MINNEAPOLIS
FIRENZE PALAZZO STROZZI FINO AL 29 AGOSTO
ORARI LU/VE 14-21 SA/DO E FESTIVI 10-21
BIGLIETTO INTERO EUR 15. DIVERSE RIDUZIONI A EUR 12. EUR 10 DIPENDENTI
INTESA SANPAOLO, EUR 5 DA 6 A 18 ANNI, 2X1 AI POSSESSORI DI CARTA FRECCIA E
BIGLIETTO FRECCE
E’ POSSIBILE PRENOTARE ONLINE MA NON OBBLIGATORIO
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