Martina Testa
Nella
costante ricerca di una propria dimensione espressiva, ognuno cerca
di colmare la propria “voracità” a suo modo, vivendo con il
proprio respiro, con la propria boccata di ossigeno e assecondando le
proprie frequenze. L’eccessiva
mole di informazioni che ingurgitiamo ogni giorno ci rende, però,
bulimici, ci induce al disgusto, a volte al rifiuto.
Tempo
fa, in un’interessante mostra di videoarte, ho visto il video di un
uomo che guidava di notte, visibilmente stanco che per mantenersi
vigile teneva la radio accesa, ascoltando, forse meglio dire
sentendo, le voci che riportavano le notizie più disparate, senza
seguire realmente nessuno di quei numerosi argomenti.
Le
voci si confondono, si sovrappongono, diventano semplici suoni, fino
a perdere di senso, di significato. L’uomo, con lo sguardo perso,
sembra quasi arrendersi a quello che di fatto diventa un brusio che
lo accompagna durante il viaggio; le voci entrano nella sua macchina,
nella sua sfera emotiva e intima, in maniera invasiva, senza tuttavia
aggiungere nulla alla sua vita presumibilmente stressata, anzi, lo
alienano da essa.
Il
fatto poi di non ricordare in quale mostra e quale artista abbia
realizzato questo video, lo trovo molto metadistopico: siamo
surclassati da parole, concetti, che non arricchiscono la nostra vita
ma ce la rendono, per l’appunto, ancora più estranea.
A
volte si ha la sensazione di vivere in maniera dissociata, in una
realtà parallela, iperconnessa, virtuale, quasi lisergica. Ci
sarebbe da allentare le redini, lasciar perdere tutto, per ritornare
davvero a respirare.
Nella
società ipercapitalista, dedita il profitto, in cui il capitale si
produce attraverso la liquidità di informazioni, l’asticella si
alza rispetto all’orizzonte individuale di ciascuno, facendoci
sentire tutt* sempre più inetti, colpevoli (?) incapaci di vivere
adeguatamente e adattabilmente a una società che ci vuole sempre
attivi e mai vigili, appiattendo, così, le spinte centrifughe di
ognuno, di ogni corpo. L’ansia
prestazionale conduce a ingurgitare, vomitare sentenze e slogan senza
che esse siano state realmente elaborate e sedimentate in noi.
In
questo contesto, “staccare la radio” e ritornare a respirare non
è la resa, ma è un gesto di rivolta, laddove viene concepito come
“mediocre”, è l’atto iniziale di scardinamento della
conoscenza per costruire nuovi saperi che siano più consapevoli, più
radicali, più autentici.
Bisognerebbe
sostituire alle singole voci impalpabili e astratte i corpi
che sono, invece,
palpabili e tangibili.
Il
corpo è costituito da fibre nervose, muscoli, mente, carne, pori, è
qualcosa di realmente concreto. Il
corpo è anche il sesso con tutta la sua carica dirompente. Dal
corpo proviene la voce, il respiro, occupa realmente e si fa spazio. Il
corpo è il contatto visivo, sono mani che si sfiorano. Il
corpo è eversivo, è il soggetto politico più determinante che
esista, è tutto ciò che abbiamo per definirci ed “esistere”. Se
i limiti del linguaggio definiscono i limiti del nostro mondo, possiamo
ampliarlo affermando i nostri corpi da cui provengono le nostre idee, il
nostro sangue, il nostro sesso, i
nostri sogni.
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