IRONIA NELL’ARTE ITALIANA. FACILE?
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Sarebbe lungo argomentare sul tema dell’ironia: come la si definisca, a quali ambiti linguistici e semantici la si applichi e a quali settori espressivi. Grossolanamente, nella storia dell’arte occidentale, si può dire non sia un elemento ricorrente fino al ‘900 perché, in passato, l’opera degli artisti era direttamente legata alla committenza, fosse la Chiesa, il potere di sovrani e signori o la nuova classe di commercianti e banchieri. In ogni caso non si chiedeva una rappresentazione che, in qualche modo, postulasse una visione critica che mettesse in discussione quelle classi e quei poteri. Quindi l’ironia si poté esercitare quando gli artisti, liberi dalla committenza diretta, poterono esprimersi criticamente, cioè dalla seconda metà dell’Ottocento e, soprattutto, a partire dal primo Novecento, con l’irruzione delle Avanguardie, che sovvertirono le convenzioni e il linguaggio.
Una mostra al Mambo di Bologna cerca di ricostruire la presenza dell’ironia nell’arte italiana del XX e XXI secolo. Il titolo, secondo i curatori, è a sua volta ironico perché, a loro avviso, in realtà essa non è affatto facile ma complicata e difficile da maneggiare. Del resto la stagione dorata dell’ironia, che si legava all’idea che si potessero applicare le armi dell’intelligenza a momenti di critica politica e sociale, o anche a recuperare momenti ludici e di leggerezza risulta esaurita, in un presente cupamente nichilista. Il primo problema che si pone allestendo mostre al piano terreno del Mambo (al primo piano ci sono la collezione permanente e il museo Morandi) è la gestione dello spazio. Si tratta di un enorme parallelepipedo, con pareti altissime, dove, a inizio Novecento, si cuoceva il pane per la cittadinanza. Lo spazio è stato ora allestito riprendendo, in parte, l’originario progetto dell’architetto Aldo Rossi che non ebbe seguito, anche per la sua morte. Si è realizzata, a ridosso di una parete, una lunga rampa di colore rosso che ospita, appese, varie opere, una specie di riassunto delle diverse sezioni, e, in fondo, una serie di manichini di Lorenzo Scotto di Luzio (1972) che rappresentano persone qualunque che, a distanza, sembrano vere (titolo: “Noi”), mentre in alto incombono i piccioni tassidermizzati di Maurizio Cattelan. Ai piedi della rampa una cabina, anch’essa rossa, con cupola ottagonale, in cui entrare per ascoltare brani di poesia sonora, richiamo al Teatro del Mondo di Rossi.
Le pareti della vasta sala restante sono, a loro volta, rivestite di colori rosso e giallo squillanti. Rimane un corridoio laterale, le cui pareti sono rivestite di altri colori (verde, rosso magenta), mentre in fondo al salone risulta uno spazio chiuso che ospita una sezione dedicata all’arte femminista. C’è poi un altro spazio, subito dopo l’ingresso, le cui pareti sono in parte rivestite di nero, che ospita la prima sezione, “Arte come paradosso”, dedicata a un’opera storica di Gino de Dominicis (1947-1998): si intitola “Mozzarella in carrozza” ed è un’autentica carrozza d’epoca, nera. All’interno ospita una vera mozzarella, da cui il titolo. De Dominicis amava spiazzare i visitatori delle sue mostre, usando spesso il paradosso, come nei lavori video in cui cercava di ottenere dei quadrati gettando sassi nell’acqua o agitava le braccia in un tentativo di volo, fino a forme di humour molto nero, come quando espose alla Biennale di Venezia un autentico mongoloide. Il suo lavoro è sempre spiazzante, disturbante. Ne ricordo un altro in cui, semplicemente, aveva registrato una lunga, agghiacciante risata che risuonava nel museo (ci sarebbe stata bene in questa mostra). L’altra opera presente in questa sala è un video di Marisa Merz (1926-2019), prima di una lunga serie di opere di artiste in mostra. Marisa, moglie dell’esponente dell’Arte Povera Mario Merz, apre una scatola di piselli e li conta uno ad uno. Un’azione che richiama all’ambiente domestico, a un’attività (la cucina) femminile, a un diverso senso del tempo e del suo scorrere, a un momento di intimità e di isolamento.
La mostra prosegue, poi, divisa per sezioni, in cui opere e artisti non hanno un ordine cronologico: “Ironia come gioco”; “Ironia come nonsense”; “Ironia come institutional critique (perché non tradurlo in italiano?); “Ironia come strumento di mobilitazione politica”. C’è poi una sezione, che sembra a parte, intitolata “Arte come critica femminista della Società”. Quel che ne risulta è che molto spesso i lavori comprendono interventi linguistici, dove le parole e le frasi appaiono più adatte al discorso ironico dell’immagine. Non mancano però artisti che riescono a realizzare lavori in cui l’ironia deriva dallo spiazzamento delle immagini, da accostamenti incongrui che ne ribaltano il significato più evidente. Questa duplicità di approccio si registra già prima dell’entrata nella sala, con uno “zerbino insolubile” di Fabio Mauri (1926-2009), in cui la scritta incisa appare di dubbia interpretazione mentre, in alto, i piccioni di Maurizio Cattelan (1960), che riappaiono all’interno, sembrano fuori posto, vagamente minacciosi e, per questo, portatori di un messaggio ironico che, come spesso in questo artista, risulta anche inquietante. Senza entrare nello specifico di tutte le opere, l’uso della lingua in modo spiazzante appare nel lavoro di Alighiero Boetti (1940-1994) in cui, su una tela completamente rivestita di segni a biro, si decifra la scritta “Non parto non resto”; in Vincenzo Agnetti (1926-1981), con un autoritratto che risulta dall’incisione su feltro della scritta “Quando mi vidi non c’ero”; in Giuseppe Chiari (1926-2007) che riporta su un poster la scritta “L’arte è finita. Smettiamo tutti insieme”; in Emilio Prini (1943-2016) che, invitato a un’importante mostra internazionale, espone semplicemente la scritta “Emilio Prini. Confermo partecipazione esposizione”.
C’è poi l’uso spiazzante del fumetto da parte di Pablo Echaurren (1951) e Aldo Spoldi (1950) e tutta una serie di opere che utilizzano il collage, a partire da lavori di artiste femministe, come Lucia Marcucci (1933), Mirella Bentivoglio 1922-2017), Ketty la Rocca (1938-1976), che usano immagini e frasi ritagliate da riviste per donne per criticare lo statuto maschilista della società italiana, mentre Nanni Balestrini (1935-2019) realizza collage a forte connotazione politica. Non mancano lavori risalenti a prima della guerra, il cui contenuto ironico appare alquanto dubbio (De Chirico, Donghi), mentre appare più in tema l’opera del fratello di De Chirico, Alberto Savinio (1891-1952) che inventa un mondo onirico di giocattoli, abbandonati, monumenti aerei che richiamano all’infanzia, anche come evocazione di libertà, e che scrisse: ”l’uomo, dopo che ha partorito la tragedia, arriva al senso ironico”.
Pino Pascali (1935-1968: “con lui l’arte italiana perdette la sua giovinezza, e non la ritrovò” G.C. Argan). propone un’arte giocosa, all’insegna della fantasia e dell’artigianalità, così come, in modo assai diverso, Bruno Munari (1907-1998), che della leggerezza e dell’intelligenza ha fatto la propria cifra stilistica, rivolgendosi soprattutto ai bambini per stimolarne la creatività, prima che venga cancellata dal mondo adulto. Ovviamente non poteva mancare la “Merda d’artista” di Piero Manzoni (1933-1963), 30 grammi, inscatolata, “al naturale”, da vendere a peso seguendo le quotazioni dell’oro. C’è un filmato che riprende lo spirito creativo del ’68, col teatro in strada partecipativo di Michelangelo Pistoletto (1933), e una foto celebra il ‘77 ironico degli Indiani metropolitani, mentre l’artista italiano attualmente più famoso assieme a Maurizio Cattelan, Francesco Vezzoli (1971), installa un busto di imperatore su un torso femminile, giocando con l’ambiguità sessuale.
Ci sono anche esempi di poesia concreta e visiva, in cui la parola viene spogliata del suo significato e trasformata in puro suono o astratta scrittura. Su questo versante emergono, nello spazio cilindrico, le registrazioni esilaranti di Giulia Niccolai e Adriano Spatola, mentre, su un versante che mi sembra più drammatico che ironico, irrompono da un altoparlante le composizioni di Patrizia Vicinelli. La sezione “Ironia come critica femminista della società” meriterebbe una mostra a parte ed è molto interessante perché permette di riscoprire artiste che sono state rimosse, forse perché si considerava che in loro prevalesse l’istanza politica. Invece ancora oggi sono attuali le loro critiche di una società che, mutate certe forme, è rimasta patriarcale e in cui le donne sono soggette a violenza fisica ma anche ideologico sociale. Nel complesso una mostra un po’ debole, con autori che, a volte, non sembrano praticare molto l’ironia e opere non sempre delle loro migliori (ad esempio, di Pino Pascali sarebbe stato bello vedere i cannoni che realizzava con materiali di recupero ma che, grazie alla sua maestria artigianale, sembravano veri: un lavoro ironicamente attuale).
L’allestimento si affida al nome di Aldo Rossi ma appare troppo chiassoso e non credo che corrisponda allo spirito del grande architetto. Comunque apprezzabile il tentativo di fare una mostra a tema che possa suggerire riflessioni e riscoperte.
L’allestimento si affida al nome di Aldo Rossi ma appare troppo chiassoso e non credo che corrisponda allo spirito del grande architetto. Comunque apprezzabile il tentativo di fare una mostra a tema che possa suggerire riflessioni e riscoperte.
SAURO SASSI
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FACILE IRONIA. L’IRONIA NELL’ARTE ITALIANA TRA XX E XXI SECOLO
FINO AL 7 SETTEMBRE MAMBO BOLOGNA
ORARI: MA/ME 14-19 GI 14/20 VE/SA/DO 10/19
BIGLIETTO INTERO 6 EUR RIDOTTO 4 EUR
AL PIANO SUPERIORE FINO AL 25/5 MOSTRA “MORBID” DELLA BALLERINA E COREOGRAFA VALERIA MAGLI
ALLA SEDE STACCATA DI VILLA DELLE ROSE, FINO AL 30/3: CAROL RAMA UNIQUE MULTIPLES. APERTA SOLO VENERDI’ H. 14/18 E SA/DO H. 11/17
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