Che sia accaduto quando abbiamo cominciato a citare Aldo Rossi più di quanto lo leggessimo davvero? Oppure quando il progettare è diventato un pensiero onirico più che un atto concreto? Una cosa è certa: l’arma del delitto è stata l’eccesso di astrazione. Eppure, dentro i «nostri» luoghi, si continua a evocarla come se fossimo adepti di un rito antico: ne celebriamo le liturgie con un linguaggio sempre più ermetico, quasi iniziatico. L’Architettura è morta lentamente: da strumento progettuale, fisico, a espediente linguistico. Da guida concreta alla costruzione a pretesto per una conversazione autoreferenziale. Serve più a sostenere posizioni accademiche che a rispondere alle necessità della città reale, che nel frattempo cambia, si trasforma, pulsa.
E noi? Noi restiamo lì, fermi, a rifletterci nel nostro stesso linguaggio – come Narciso davanti allo stagno. Basta con i discorsi filosofici destinati solo ad altri filosofi: sono eleganti, certo, ma sterili se restano sospesi. Abbiamo ucciso l’Architettura: seppelliamola, diamogli un funerale, e proseguiamo. Nel tempo, l’abbiamo resa quasi inaccessibile, coprendola di un lessico che confonde profondità con oscurità, complessità con opacità. Ma si può essere profondi anche parlando con chiarezza: non è un tradimento del pensiero – anzi, è un atto di responsabilità.
L’architetto non perde nulla del proprio valore intellettuale se si rivolge a chi non è addetto ai lavori. Al contrario, ritrova il proprio ruolo nella società. Non è il custode di una formula, ma colui che trasforma le idee in luoghi. Che sa dare forma alla visione. Che sa coniugare teoria e materia. L’Architettura è morta, sì. Ma – e qui sta il punto – era solo un’Architettura. Uno stile, un’epoca, un’idea. Ora tocca a noi inventarne un’altra, una che servi, non che riempia.
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