NAN GOLDIN A MILANO: FOTOGRAFARE LA VITA
Nan Goldin (Washington 1953), porta all’Hangar Bicocca a Milano una
mostra che è già stata ospitata al Moderna Museet di Stoccolma, allo
Stedelijk di Amsterdam, alla Neue Nationalgalerie di Berlino e passerà poi al
Grand Palais a Parigi. Le sedi prestigiose ci dicono dell’importanza di questa
artista che ha segnato la storia della fotografia dagli anni ’70 del Novecento.
Per avvicinarne l’opera non si può prescindere dalla biografia perché è
proprio dalla sua vicenda personale che nasce. A questo scopo è utile vedere
il docufilm “Tutta la bellezza e il dolore”, di Laura Poitras, che ha vinto a
sorpresa il Leone d’Oro alla Mostra del cinema di Venezia del 2022 (si trova
anche in dvd). Documenta la sua battaglia contro la potente famiglia Sackler,
proprietaria della Purdue Pharma, che produsse e diffuse farmaci oppioidi,
usati per la cura del dolore, senza avvisare degli effetti di dipendenza che
avrebbero provocato, anzi smentendo, con aggressive campagne
pubblicitarie, tali conseguenze. Questa politica ha portato a migliaia di vite
perdute o rovinate. La stessa Goldin, che assunse OxyContin, farmaco a
base di Ossicodone a seguito di un incidente, divenne dipendente,
consumandolo in dosi sempre maggiori e rischiando la morte. Dopo una
difficile disintossicazione decise di intraprendere una lotta contro la famiglia
Sackler che, oltre a produrre il farmaco, era una grande collezionista d’arte e
finanziava generosamente primari musei, come Guggenheim e Louvre,
ricevendone in cambio pubblicità e anche l’intitolazione di intere ali.
Attraverso la sua associazione P.A.I.N. ha chiesto ai musei di rinunciare a
questi finanziamenti e cancellare le dediche alla famiglia Sackler; all’azienda
Purdue ingenti ristori per le vittime. La dura battaglia civile e legale ha
ottenuto importanti risultati, sia in termini di risarcimenti sia per la rinuncia, da
parte di molti musei, ai finanziamenti della famiglia. Il film della Poitras mostra
le manifestazioni di Nan Goldin e dei membri dell’associazione nei musei, il
duro confronto processuale, ma ricostruisce anche la sua vita complicata e il
suo affermarsi come artista. La mostra all’Hangar Bicocca è un riassunto del
suo percorso artistico, basato sull’uso della fotografia per documentare in
modo diretto e sincero la vita sua e dei suoi amici, entrando senza filtri nella
loro e propria intimità . Lei, quarta e ultima figlia di una famiglia borghese di
origine ebraica che si rivelò immatura e incapace a gestirli, sviluppò un animo
ribelle verso un tipo di vita banalmente conformista, rafforzato dalla vicenda
dell’amata sorella maggiore Barbara, a sua volta insofferente e ribelle, che i
genitori non trovarono di meglio che chiudere in un istituto psichiatrico, e che
si suicidò a diciannove anni. Cacciata da casa, da scuola, dalla famiglia
adottiva, a quindici anni Nan si trasferì in una comune e prese a frequentare
una scuola che praticava metodi di istruzione anticonvenzionali. Lì iniziò l’uso
della fotografia e, frequentando compulsivamente con un amico l’Harvard
Film Archive, sviluppò un grande amore per il cinema, dal classico americano
a Warhol ai grandi registi europei come Antonioni: questa passione diventerÃ
un elemento importante nel suo lavoro. A partire dagli anni ’70, prima a
Boston e poi a New York, prese a frequentare locali e ambienti delle
comunità gay, creando legami affettivi e amicali sempre più intensi,
all’insegna di vite disordinate, promiscuità sessuale, uso di droghe, fragilitÃ
ma anche amore, tenerezza, solidarietà . Li raccontava usando la fotografia,
entrando nella loro intimità , cercando accesso alle loro anime: foto non come
osservazione distaccata, disse, ma come una carezza, una comunione, vite e
corpi messi a nudo, compreso il suo. Dato che non riusciva a crearsi una
camera oscura cominciò a realizzare diapositive, che poi ordinava e
proiettava in lunghe sequenze, riprendendo la passione per il cinema, da cui
derivava l’elemento narrativo. Alla proiezione delle immagini univa anche
musiche, inizialmente di gruppi rock come i Velvet Underground. Nacque così
“The Ballad of Sexual Dependency”, il suo lavoro più famoso, che ha preso
forma nel 1981 e si è sviluppato fino al 2022, con cambiamenti, aggiunte (ora
circa 700 diapositive), variazioni anche nella parte musicale. Il titolo si
riferisce a una canzone di Kurt Weill nell’ Opera da tre Soldi di Brecht e le
foto rappresentano semplicemente la vita di Nan e dei suoi amici, i momenti
intimi, quelli dolci e quelli violenti (lei che si riprende con gli occhi pesti per le
botte del suo uomo), la tenerezza e il consumo di droga, l’amore e
l’incertezza. La canzone dei Velvet Underground cantata da Nico “I’ll be your
mirror” dà il senso di questo lavoro: “I find it hard to believe you don’t know /
The beauty you are / But if you don’t, let me be your eyes / A hand to your
darkness so you won’t be afraid / When you think the nigt has seen your
mind…” Il dramma epocale che investì Nan e la sua comunità fu, negli anni
’80, l’AIDS: molti si ammalarono e morirono, amici e amiche carissime, artisti
come Peter Hujar, David Wojnarowicz. Nel 1989 curò la prima mostra che
affrontava il tema dell’AIDS, “Witnesses, against our vanishing”, con artisti
come Kiki Smith, Peter Hujar, Philip-Lorca diCorcia, che ovviamente suscitò
grandi polemiche. La mostra all’Hangar Bicocca, intitolata “This Will Not End
Well”, raccoglie i più importanti slideshow di Nan Goldin, diapositive ma
anche filmati proiettati in sequenza con musiche sia scelte da lei che
composte espressamente. Questi lavori uniscono alla staticità del singolo
scatto fotografico una dinamicità che li rende, come lei dice, film realizzati con
proiezione successiva di immagini fisse. L’allestimento sfrutta la dimensione
enorme del capannone che ospitava le officine per la produzione di treni e
grandi macchine elettriche, denominato “Navate”. Entrando in questa grande
area, immersa nell’oscurità , si è accolti dai suoni dell’opera audio “Bleeding”
di “Soundwalk Collective, che ha partecipato ad altri progetti della Goldin,
compreso il film “Tutta la bellezza e il dolore”. Sono suoni ambientali registrati
nelle tappe precedenti della mostra, comprese le cosiddette dispersioni
sonore tra le varie tracce, rielaborate da un sintetizzatore sospeso a mezza
altezza nello spazio. Ne risulta un ambiente sonoro che crea un senso di
sospensione e introduce alla visione delle opere. Le proiezioni avvengono
all’interno di sette padiglioni progettati dall’architetta Hala Wardé, disposti a
formare una sorta di villaggio. Il colore, la disposizione interna, l’ingresso e la
modalità di fruizione dei padiglioni dipendono dai lavori che vi sono ospitati.
Nel primo si proietta The Ballad of Sexual Dependency, l’opera più famosa. Il
secondo “Memory Lost”, sulla dipendenza da sostanze, lo stato di astinenza.
Sono immagini imperfette, sfocate, dolorose. Nel terzo, “Sirens” si parla del
rapporto tra il piacere dell’uso delle droghe, l’accesso a mondi fantastici e la
morte che spesso ne è il risultato finale, con l’uso anche di inserti da film, tra
gli altri, di Warhol, Fellini, Kurosawa, Grifi e una partitura sonora realizzata
appositamente dalla compositrice Mica Levi. Il quarto padiglione contiene il
lavoro “Fire Leap”, in cui racconta dei bambini, portatori a suo avviso, dalla
nascita, di un sapere che viene via via perduto con la crescita e l’educazione.
Il quinto, “The Other Side”, fa riferimento a un locale queer degli anni ’70 a
Boston che Nan aveva frequentato e abitato ed è un omaggio alle amiche e
amici transgender. Nel sesto padiglione si proietta il lavoro “Stendhal
Syndrome”, dove, ispirandosi alle Metamorfosi di Ovidio, racconta la storia di
sei figure mitologiche, con foto riprese in importanti musei, intrecciandola a
quella di amiche e amici. Le musiche sono di Soundwalk Collective. Il settimo
padiglione contiene “You Never Did Anything Wrong”, ed è un film girato in
Super 8 e 16mm. Parla di eclissi solare e di animali che, come i bambini,
introducono uno sguardo altro, che sfugge alle convenzioni umane. Al
termine del percorso nelle navate si accede all’ultima area, un enorme
edificio voltato a botte detto cubo. Qui Nan Goldin ha allestito l’opera finale
della mostra, la più intima perché dedicata alla memoria della sorella
Barbara, morta suicida a diciannove anni in una clinica psichiatrica, quando
lei ne aveva undici. Il lavoro si intitola “Sisters, Saints, Sybils”. Associa la
sorella, ribelle contro famiglia e società , a santa Barbara, uccisa dal padre. Si
sale su un’alta piattaforma dalla quale si osserva, in basso, una installazione
con figure di cera che rappresentano Barbara su un letto, tenuta ferma dalle
mani di due uomini, mentre l’altra figura rappresenta il padre. In fondo una
grande proiezione video a tre canali in cui si rievoca la storia della santa,
della sorella e della stessa Nan Goldin che rievoca momenti drammatici della
sua vita. Infine l’artista, ebrea, che ha abbracciato da anni la causa
palestinese, ha voluto inserire, tra i padiglioni, uno spazio in cui vengono
proiettate immagini riprese da abitanti di Gaza che documentano le loro
terribili condizioni di vita. A causa del suo attivismo contro Israele ha subito
persecuzioni, boicottaggi e censure, che sono culminate in una campagna
contro di lei quando, nella tappa berlinese della mostra, denunciò la
complicità delle autorità tedesche con il genocidio di Gaza. Ha dichiarato di
aver subito molte più persecuzioni per la sua solidarietà coi palestinesi che
per la campagna contro la potente famiglia Sackler. Ci dimostra ancora che
l’arte non può rimanere neutrale o indifferente in questi tempi sconvolgenti.
SAURO SASSI
NAN GOLDIN: THIS WILL NOT END WELL
MILANO, HANGAR BICOCCA, VIA CHIESE 2. RAGGIUNGIBILE SIA IN
METRO CHE IN AUTOBUS, LINEA 87, DALLA STAZIONE CENTRALE
FINO AL 15/02 2026
DA GIOVEDI’ A DOMENICA 10:30 / 20:30
INGRESSO GRATUITO CON PRENOTAZIONE
FINO AL 11/01 OSPITA ANCHE UN’OTTIMA MOSTRA DELL’ARTISTA
GIAPPONESE YUKO MOHRI, GIA’ RAPPRESENTANTE DEL SUO PAESE
ALLA BIENNALE ARTE DI VENEZIA CON INSTALLAZIONI VISIVE E
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