Il museo come impresa manageriale

di Chiara Di Salvo

Il museo, da semplice contenitore di oggetti di valore storico-artistico, con la riforma Bottai del 1939 comincia a trovare una sua dimensione sociale. La l. 1 giugno 1939 n. 1089, “Tutela delle cose di interesse artistico o storico” e la l. 29 giugno 1939 n. 1497, “Protezione delle bellezze naturali”, sono le leggi di partenza che hanno aiutato i professionisti dei beni culturali a far diventare, anche giuridicamente, il museo un punto di riferimento nella società.

Dai primi anni Novanta ad oggi, l’attenzione del legislatore è stata indirizzata alla stabilizzazione burocratica e politica del Ministero competente, sia per la soluzione di questioni apparentemente futili come quelle relative al nome del Ministero stesso [D.lgs. 20 ottobre 1998, n. 368: il nome cambia in “Ministero per i Beni le Attività Culturali” mentre con l. n. 233 del 17 luglio 2006: torna a chiamarsi “Ministero per i Beni e le Attività culturali”, MiBAC], sia per la fondamentale questione della ripartizione delle competenze tra Stato, regioni e comuni.

Il conferimento di autonomia ai poli museali (soprintendenze speciali) e l’introduzione del controllo di gestione all’interno del Ministero per i Beni e le Attività Culturali rivestono particolare importanza in quanto costituiscono due aspetti del concetto di accountability, ovvero quel potente fenomeno di “managerializzazione” che recentemente ha coinvolto la pubblica amministrazione.
L’approvazione dello statuto della Regione Toscana [La Regione Toscana nel nuovo statuto del 2004, all’art. 4, attribuisce a se stessa non solo la responsabilità della valorizzazione, ma anche quella della tutela del bene culturale presente sul proprio territorio ] fu uno dei punti di partenza con il quale si cominciò a prevedere la gestione dei musei in forma diretta come modalità residuale, mentre la forma indiretta come modalità ordinaria.

Girolamo Sciullo [docente di Diritto Amministrativo presso l’Università Alma Mater Studiorum di Bologna]. sottolinea che: « Le disposizioni degli artt. 112 e 115 del Codice Urbani mettono in evidenza il passaggio dall’indirizzo politico alla gestione operativa nel campo della valorizzazione dei beni culturali e, nello specifico, dei luoghi e istituti della cultura di cui all’art. 101 del Codice: la definizione delle strategie e degli obiettivi comuni della valorizzazione, riservata agli enti territoriali titolari dei beni da valorizzare; l’elaborazione e lo sviluppo della programmazione degli interventi da parte degli stessi enti, con l’eventuale concorso di soggetti privati no-profit; la gestione, infine, dei servizi culturali ad opera degli enti pubblici proprietari ovvero di un terzo concessionario dei servizi, scelto mediante gara » [Cf. Sciullo G., Valorizzazione, gestione e fondazioni nel settore dei beni culturali: una svolta dopo il d.lgs. 156/2006?, in www.aedon.mulino.it, n. 2, 2006].

Come dato significativo, l’art. 115, comma 2 del Codice Urbani, specifica che la gestione diretta è svolta attraverso strutture organizzative interne alle amministrazioni e dotate di autonomia scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile. Viene definita “in economia” (detta anche “museo-ufficio”) perché non prevede un grosso dispendio di risorse economiche e, se si attua la forma consortile pubblica, non richiede gare. Si specifica inoltre la necessità di avvalersi di personale tecnico qualificato.

Al comma 3, definisce invece la gestione indiretta. Questa prevede la gestione delle attività di valorizzazione in concessione a terzi, ovvero ad una persona giuridica (o ente) diversa dall’ente locale, ad esclusione dei privati.
L’esternalizzazione invece è relativa propriamente ai “servizi aggiuntivi” (Legge Ronchey, art. 117 del Codice Urbani).
Nel 1992, gli onorevoli Luigi Covatta e Giuseppe Chiarante proposero due disegni di legge in cui si prevedeva l’eventualità di affidare a terzi alcuni servizi; il progetto dell’On. Covatta considerava inoltre la possibilità di poter affidare interamente la gestione di alcune istituzioni museali a fondazioni già esistenti, oppure di crearne di nuove a carattere misto tra pubblico e privato.

Il dibattito che ne seguì portò Alberto Ronchey, divenuto Ministro dei beni culturali da soli quattro mesi, a proporre il d.l. 14 novembre 1992, n. 433 “Misure urgenti per il funzionamento dei musei statali. Disposizioni in materia di biblioteche statali e di archivi dello Stato”, convertito poi nella l. 14 gennaio 1993, n. 4.

Prima di questa legge, la concessione degli spazi commerciali all’interno dei musei dello Stato era regolata dalla Direzione generale del Ministero delle Finanze, che fissava e riscuoteva un corrispettivo che confluiva nelle casse dello Stato; il Ministero dei Beni culturali e ambientali non esercitava nessun diritto sulle attività commerciali e non aveva facoltà d’intervento sulla scelta di prodotti.
La Legge Ronchey non prevede una riforma organica del settore museale, ma si occupa delle sue carenze - soprattutto a livello di sicurezza ed organizzazione - aprendo la strada ai noti “servizi aggiuntivi” previsti ed inseriti anche dal Codice Urbani all’art. 117.

L’urgenza con cui venne promulgata, era motivata da due gravi mancanze di cui soffrivano i musei italiani: incapacità di auto sostenersi economicamente e strutture completamente inadeguate e comunque lontanissime dagli standard europei. Basti pensare agli orari d’apertura, molto ridotti rispetto ad oggi, che prevedevano lunghe chiusure estive che penalizzavano fortemente il turismo se non l’immagine del nostro Paese.

La forza innovatrice della nuova legge risiede sostanzialmente in tre punti:
- al Ministero dei Beni culturali e ambientali viene restituita piena facoltà di gestione in materia di concessione degli spazi commerciali (all’interno dei musei statali);
- per la prima volta a livello legislativo, il visitatore viene considerato soggetto avente diritto di godere di un servizio oltre alla fruizione delle collezioni;
- viene reso possibile “esternalizzare” la gestione dei servizi museali, affidati per la prima volta ad imprenditori privati.

Quando fu approvata, gli addetti ai lavori la valutarono con un certo scetticismo. Ciò nonostante, Antonio Paolucci, ex Ministro per i beni culturali [Ministro per i Beni Culturali (1995-1996); Soprintendente speciale per il Polo Museale Fiorentino e Direttore regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici (2006). Nel 2007, è incaricato dal Ministro Francesco Rutelli di far parte dei quattro membri esperti che affiancano Salvatore Settis nel coordinare i lavori del Consiglio Superiore per i Beni Culturali e Paesaggistici. Attuale Direttore dei Musei Vaticani e Presidente Comitato Scientifico Associazione Civita.], nel descriverne sinteticamente i vantaggi, sostenne che « […] chi vuole utilizzare l’immagine del David di Michelangelo per una pubblicazione divulgativa o per uno spot pubblicitario è giusto che paghi, perché il David è patrimonio del popolo italiano ». [Cf. Cini L., La rivoluzione della legge Ronchey. Ora possiamo valorizzare la cultura, art. del 4 marzo 2006, in www.patrimoniosos.it].

Tuttavia si deve sfatare l’idea secondo la quale i musei sono ricchi perché fruttano. Sempre secondo Antonio Paolucci, infatti, i provvedimenti attuati attraverso la Legge Ronchey non riescono a risolvere, se valutata a breve termine, la situazione di endemica non autosufficienza dei nostri musei.

A questo proposito, anche Luca Zan [docente all’Università di Bologna e Professor presso lo European Institute for Advanced Studies in Management (EIASM), Brussels], sottolinea come, con l’espressione “managerializzazione” della gestione museale, sia meglio intendere la responsabilizzazione economica e la conseguente accountability, ovvero il dovere del manager museale di dare una rendicontazione trasparente e puntuale delle spese del museo. [Cf. Zan L. (a cura di), Conservazione e innovazione nei musei italiani. Management e processi di cambiamento, Milano, Etas, 1999].

In conclusione, la managerializzazione dell’amministrazione pubblica negli anni ha assunto dimensioni notevoli, tanto da essere considerata un mezzo di legittimazione dell’esistenza delle amministrazioni stesse. Oggi diventa difficile, per un’amministrazione pubblica che vuole essere considerata moderna, non includere il discorso manageriale all’interno della propria riforma. [Cf. Bonini Baraldi S., op. cit.].

In questo contesto, in Italia il settore dei beni culturali si configura come l’ambito in cui lo Stato, pur operando a gestione diretta, è stato soggetto/oggetto di una razionalizzazione orientata ai principi del management, che da alcuni decenni ha caratterizzato l’intera sfera di attività della pubblica amministrazione a livello internazionale.

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