L’horror gotico di Giorgio Ferroni

di Gordiano Lupi


Giorgio Ferroni (Perugia, 1908 - Roma, 1981) è uno dei primi registi italiani a praticare il genere horror in accezione gotica, dopo Riccardo Freda (I vampiri del 1957 è il primo horror italiano) e contemporaneamente a Mario Bava.

Laureato in giurisprudenza nel 1932, vice pretore a Napoli, critico cinematografico de La Ruota, entra nel cinema come assistente di regia e come documentarista. Gira molti cortometraggi e collabora per film in costume come Scipione l’Africano durante il periodo fascista, esordisce nella regia dirigendo le versioni italiane de I tre desideri (1937), Terra di fuoco (1938) e il film semi documentaristico L’ebbrezza del cielo (1940). Dirige alcuni film interpretati dal popolare comico torinese Macario (Il fanciullo del West, 1942 - Macario contro Zagomar, 1943) e un Senza famiglia (1944) voluto dalla Repubblica di Salò.
Nel dopoguerra si segnala come regista di film personali d’impronta neorealista (Pian delle stelle, 1946 - Tombolo, paradiso nero, 1947 - Marechiaro - Vivere a sbafo, 1949) e dirige il documentario Vertigine bianca (1956), considerato il miglior lungometraggio del genere mai realizzato. Ferroni non abbandona l’attività di documentarista, genere nel quale eccelle, ma realizza anche pellicole mitologiche di buon successo (La guerra di Troia, 1961 – Il colosso di Roma, 1964 – Il leone di Tebe, 1964) e qualche western firmandosi Calvin Jackson Padget (Un dollaro bucato, 1965 – Per pochi dollari ancora, 1966 - Il pistolero segnato da Dio, 1968).
L’elencazione non è esaustiva. In questa sede non interessa il Ferroni dei kolossal mitologici e nemmeno quello degli spaghetti western, ma due opere singolari inserite nel contesto di un horror gotico tipico di Riccardo Freda, Mario Bava e Antonio Margheriti. Sto parlando de Il mulino delle donne di pietra (1960) e La notte dei diavoli (1972).
Il mulino delle donne di pietra (1960) è un eccellente horror di ambientazione olandese realizzato nel 1958, ma uscito soltanto due anni dopo. Si tratta di una coproduzione italo francese interpretata da un’affascinante Scilla Gabel, Herbert Bohem, Wolfgang Preiss, Pierre Brice, Dany Carrel, Liana Orfei e Olga Solbelli. Giorgio Ferroni, Remigio Del Grosso, Ugo Liberatore e Giorgio Stegani sceneggiano una storia di Pieter Van Veigen tratta da I racconti fiamminghi. Fotografia stupenda e tenebrosa di Pier Ludovico Pavoni che dipinge scene dai colori irreali, immortala un paesaggio nordico che si imprime nella memoria sfumando la distinzione tra parti oniriche e realtà. La storia è incentrata sul dramma del dottor Wahl (Bohem) che tiene in vita la sofferente figlia Helfi (Gabel) dissanguando giovani donne con l’aiuto di un mad doctor che scopre una formula segreta. Il clima è morboso, soprattutto perché il folle genitore si dedica a una sorta di scultura mortuaria trasformando le vittime in statue di pietra da inserire in un macabro carillon.
La vicenda si svolge in un mulino olandese abitato dal dottor Wahl insieme alla figlia, ricostruito alla perfezione, così come sono ottimi gli esterni che fotografano fiumi e brughiere. Pierre Brice (utilizzato spesso come indiano negli spaghetti - western) è Hans Von Harnem, l’innamorato che insieme a un amico scopre la macchinazione, salva la sua bella e fugge. Il dottor Wahl uccide il dottore che voleva in premio la mano della figlia, ma non si rende conto che distrugge anche l’antidoto per guarirla. Quando se ne accorge impazzisce per la disperazione, incendia il mulino e muore insieme alla ragazza consumata dalla malattia.
L’ambientazione è suggestiva, le statue del carillon sono ben fatte e incutono timore sin dalle prime sequenze, perché sembrano persone tormentate colte nei loro gesti terminali. La pellicola è un gotico in costume ambientato in Olanda, girato da Ferroni nel periodo di miglior forma. Un film molto teatrale, come consuetudine del tempo, di taglio romantico nelle parti sovrastrutturali, spesso lento e macchinoso. Il regista dosa bene tensione e ritmo, ma dà il meglio di sé in una suggestiva parte onirica durante la quale un Brice drogato non sa distinguere realtà da fantasia. Notevole l’uso delle dissolvenze che introducono ai deliri di Brice: porte che si aprono, insegne che cigolano, finestre che sbattono e tombe scoperchiate che mostrano il cadavere della ragazza. Brice crede di essere impazzito e quando vede la figlia del dottore ancora viva pensa di aver avuto un’allucinazione. Non è così, perché è stato oggetto di una macchinazione ordita ai suoi danni. Molto suggestive sono le sequenze girate all’interno di un laboratorio degno del miglior dottor Freinkenstein. Tra alambicchi e trasfusioni di sangue il medico lavora per tenere in vita la figlia di Wahl, toglie il sangue malato e lo reintegra con quello sano. La parte più macabra resta quella che vede il padre di Helfi all’opera per trasformare le vittime in statue di pietra. Le donne uccise sono pietrificate in un movimento del corpo, mascherate e inserite nel gigantesco carillon. Sono ben fatti tutti gli scenari horror, le notti di tregenda, il mulino durante una tempesta di pioggia, fulmini, tuoni, vento che fischia, nebbia e rumori innaturali. Il finale tocca punte melodrammatiche da feuilleton, ma il gusto del tempo lo richiede e nel 1960 non è possibile pretendere una pellicola gotica più cruda di questa. Scilla Gabel (nome vero Gabellini), ottima attrice riminese nata nel 1938, nota come controfigura di Sofia Loren, conferisce al film una nota di conturbante bellezza. La protagonista femminile, bionda, fotogenica, affascinante, è un’involontaria dark lady che fa morire altre donne per sopravvivere.
La notte dei diavoli (1972) è il penultimo film di Ferroni, che a sessantaquattro anni torna ad atmosfere gotiche dopo aver girato film in costume come Coriolano eroe senza patria (1965), kolossal come La battaglia di El Alamein (1969), mitologici come Ercole contro Moloch (1964) e western come Wanted (1967).
La notte dei diavoli è una coproduzione italo spagnola interpretata da Gianni Garko, Agostina Belli, Roberto Mandera, William Vanders, Teresa Gimpera, Umberto Raho, Cinzia De Carolis e Maria Monti. Romano Migliorini, Giovan Battista Mussetto ed E. M. Brochero adattano un racconto di Aleksei Tolstoj (non certo Leone, come sostiene Marco Giusti su Stracult!) sulla leggenda slava dei Wurdalak.
Si tratta di una sorta di remake attualizzato dell’episodio La notte dei Wurdalak contenuto ne I tre volti della paura (1963) di Mario Bava. Le varianti sono molte, dall’ambientazione contemporanea, alla storia d’amore, per arrivare alla parte girata nella clinica psichiatrica e al rocambolesco finale. La suggestiva musica che sottolinea i numerosi momenti di tensione è di Giorgio Gaslini, mentre il montaggio è di Gian Maria Messeri. Le scenografie sono di Eugenio Liverani, Jaime Perez Cubero e José Luis Galicia. La pellicola, ambientata in Jugoslavia, è narrata come un lungo flashback onirico di un terrorizzato Garko, internato in ospedale psichiatrico. Garko deve fermarsi in un casolare a causa di un guasto alla sua auto, uscita di strada per non investire una donna. Il casolare si trova in una campagna sperduta, la famiglia che vi abita è terrorizzata da una strega - vampiro (Monti) che ha contagiato uno di loro, ucciso definitivamente tramite un palo appuntito nel cuore. Il padre esce per la battaglia finale con la strega ma ha la peggio, diventa un vampiro anche lui e sacrifica una nipotina alla strega. Il contagio dilaga anche perché i vampiri cercano coloro che amano e li mordono per tenerli sempre con loro. Mereghetti concede due stelle a un film che definisce onesto cinema di genere, ma dobbiamo aggiungere che è un cinema che adesso manca, perché non è facile assistere a un horror ben confezionato con grandi momenti di tensione.
Carlo Rambaldi regala diversi effetti speciali degni di nota, soprattutto le trasfigurazioni dei Wurdalak che quando vengono uccisi si decompongono in modo orribile. Segnaliamo anche qualche scena splatter con appuntiti rami di frassino e alari da caminetto che si conficcano nelle carni in un tripudio rosso sangue. Il finale è un crescendo di orrore che tocca il culmine con la trasformazione di tutta la famiglia in orribili Wurdalak. Gli zombi - vampiri che cercano carne umana per cibarsi e trasmettere il contagio danno la caccia a Garko che riesce a fuggire. Le uniche parti datate della pellicola sono quelle romantiche a base di effusioni Garko - Belli, che sembrano uscite da un romanzo di appendice di Carolina Invernizio. Il rapporto d’amore tra i due non è immotivato e serve a dare sostanza al colpo di scena finale, quando Garko crede di essere perseguitato da una Wurdalak e finisce con l’uccidere un’incolpevole Agostina Belli.
La pellicola si caratterizza per numerosi omaggi al cinema di Mario Bava, anche perché il senso del remake è proprio quello di riportare in auge una vecchia idea del grande regista. La sequenza dei due bambini alla finestra che scrutano il nuovo venuto con sguardo perso nel vuoto è cinema di Bava senza mezzi termini. I bambini sono una costante dell’horror italiano e rivestono sempre perfidi ruoli poco rassicuranti. Lucio Fulci porterà all’eccesso questa poetica. L’ambientazione è ottima, in una campagna desolata, tra cani che ululano alla luna, vento che soffia, lugubri rintocchi di ore, lunghi silenzi, finestre e porte sprangate, momenti di terrore. Maria Monti, nei panni della strega, lascia lunghi graffi sulle pareti in legno, conserva uno sguardo spiritato e folle, non parla mai, ma incute timore. La musica ha un ruolo ben definito e passa dal lugubre commento orrorifico a un leitmotiv romantico nei momenti sentimentali. Il film si ricorda anche per una breve parentesi sexy con un rapido nudo esibito da Agostina Belli prima di concedersi a Gianni Garko.
Le parti splatter e gore sono artigianato puro e tutti i trucchi di Rambaldi sono frutto di un lavoro certosino a base di cera. Ferroni non eccede con il sangue. Mette soltanto la dose che serve. Forse la scena più terrificante è quella della bambina trasformata in Wurdalak che morde al collo la madre e si ritrae con la bocca ebbra di sangue. Nel concitato finale ci sono alcuni colpi di piccone che spaccano cuori e provocano schizzi di sangue, bambini - zombi che ridono in modo inquietante, dita che si spezzano e corpi decomposti. In definitiva un buon gotico che grazie al melodramma finale si può ascrivere alla tradizione dell’horror romantico, rivitalizzata da Joe D’Amato con La morte ha sorriso all’assassino (1973). Giorgio Ferroni può essere definito a pieno titolo uno dei padri dell’horror italiano.

www.infol.it/lupi

Post a Comment

Nuova Vecchia