di Beatrice Pozzi
Se si parla di uomini, ci sono 27 modi di dirlo. Almeno stando alla lista proposta da Nichi Vendola in televisione una decina di giorni fa.
La lingua italiana ha 27 modi di descrivere un uomo omosessuale, diversi dei quali molto conosciuti anche da chi non lo è, come checca, frocio, buco, ricchione, e si potrebbe andare avanti. Per quanto riguarda le donne, ne esistono almeno altrettanti, ma chi può dire di averne mai sentiti più di un paio? La maggiore notorietà dei termini declinati al maschile, d'altra parte, è una conferma: una conferma che dell’esistenza dei rapporti tra uomini si è sempre parlato. Già nell'antichità si sapeva che, sì, esistevano, esistevano uomini di età matura che stavano con i ragazzini e giovani che rimanevano sessualmente passivi, coppie che nel mondo greco erano strette in relazioni formalizzate e socialmente accettate, mentre presso i semiti erano considerate abominevoli. Le donne che si univano ad altre donne, invece... Esistevano anche loro, certo, e Platone nel suo Simposio le chiama hetairistriai, ma erano più nascoste, quasi invisibili, rimanevano all'interno delle mura domestiche. E quindi per loro non c'era nemmeno un nome. A parte, ovviamente, nei casi più eclatanti: quelle che sfidavano la società rifiutando apertamente di mettere da parte le passioni adolescenziali per altre ragazze, generalmente accettate, per sottomettersi agli uomini con il legame matrimoniale. Quelle che, socialmente meno controllabili, erano chiamate, dagli uomini, tribadi, donne-uomo, mascule, fricatrici. Che seducevano altre donne, e spesso andavano anche con le prostitute, che costringevano con regali a piegarsi a rapporti innaturali.
Furono "lesbiche" solo dal IV secolo. E, nei secoli successivi, ancora tribadi, ancora donne-uomo. Saffiche. Saffiste. Oppure, "quelle che si rendono colpevoli del peccato silenzioso". Nell'Ottocento, dai medici e dagli psichiatri, furono chiamate omosessuali, e invertite, e ginandre, e urninghe.
E poi iniziarono a chiamarsi tra di loro.
L'esplosione della cultura pop e del filone omosessuale del movimento femminista, e in parallelo la maggiore possibilità di incontrarsi entro i confini di una vera e propria comunità, con tempi e modalità impensabili per le epoche passate, ha infatti portato le lesbiche a coniare decine di nomi e nomignoli per auto-definirsi e definire quelle come loro, e anche per distinguere i diversi modi in cui si può esserlo.
Se in Brasile si fa riferimento a stivali e pantofole e in Giappone si allude soltanto attraverso l’immagine di un giglio, nel panorama italiano, in alternativa a lesbica troviamo, usatissimo, il diminutivo lella, e sorella, e lesbicaccia. E poi i termini ripresi dal vocabolario inglese: oltre che gay, o la versione nostrana gaya, si può usare queer, e, per quelle che sono ancora impegnate nel definire il proprio "ruolo", butch (in italiano camionara, camionista, cravattona), o femme.
E ancora, le varianti dialettali: guina, recchia, sgundula, gnegna, ghirba, mascula e masculona, buccia e sbucciata, nurzia, nespola.
Definizioni vezzeggiative, ironiche, talvolta spregiative ma soprattutto, per la maggior parte, private, talmente gergali da risultare sconosciute ai più, spesso anche alle lesbiche stesse. Indice di una sorprendente varietà linguistica. E voci di un elenco potenzialmente ancora in crescita: creatività femminile che si consolida in (sotto)cultura.
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