La scrittura in funzione terapeutica?


di Vincenzo Jacovino

Il grido di dolore e di amarissima constatazione del poeta

la poesia è morta: l’hanno finalmente uccisa. ( C. Serricchio)

lungi dal manifestare angoscia nella folta schiera dei praticanti che, veleggiando verso la velleitaria aspirazione della poesia, inondano invece il mondo di versi. La caratteristica essenziale del fenomeno, in effetti, è che le persone coinvolte sono al contempo attori e spettatori ma mai semplici e disinteressati frequentatori. Possono questi, i praticanti, mai essere lo specchio fedele dello stato reale della poesia? Il dubbio è d’obbligo.
E’ probabile che la folta schiera dei praticanti se pur

in maschere le traffica(..)no attorno

quali

occhialuti becchini e impudenti dottori,
messaggeri di macroscopiche finzioni
e di allucinanti presagi di meduse ( C. Serricchio)

abbiano, forse, l’inconsapevole scopo di utilizzare la scrittura come metodo e formulazione terapeutica anche se, in più occasioni, il trasfert origina ambiguità e dubbia ambivalenza proprio perché “la parola non è la cosa“ come “la letteratura non è la vita”(F. Fortini).
La scrittura in funzione terapeutica?
Si, perché porsi davanti a una pagina o schermo bianco è come prepararsi a una seduta di autoanalisi individuale, in prima istanza, con l’immancabile e sottesa aspettativa che possa divenire, poi, collettiva quando il bianco avrà cooptato, finalmente, i numerosi segni grafici e macchie di nero.
No, perché la scrittura non ha, purtroppo, la funzione di rimuovere la brutta copia, quale sembra o è, la propria vita. Se un inferno personale c’è, la scrittura difficilmente spegne fiamme e fuoco può, probabilmente e in alcuni casi avviene, prospettare alcuni possibili percorsi di uscita.
Siccome si vive immersi, effettivamente, in un sistema narrativo ecco, quindi, la spinta e, a volte, l’intimo bisogno di narrare e narrarsi il proprio inferno o la propria normalità. Ma la narrazione, ossia la seduta di autoanalisi collettiva, quale valore o spessore consegna alla scrittura? All’interrogativo non è corretto dare una risposta critica specie laddove la mutuazione dalla forma diaristica in poesia avviene attraverso la presenza della terzietà.
Chi è l’analizzato: il diarista o il trasfert(ista) che traspone in versi l’inferno? Quale funzione ha la poesia in questo caso, constatato che non è il diarista a estrinsecarla? Interrogativi senza risposta. L’inferno a chi appartiene? Non al mutuante ma né al diarista e ancor meno all’immaginario analista; in questa confusione il poeta vede bene se definisce il tutto quali

occhialuti becchini e impudenti dottori,
messaggeri di macroscopiche finzioni.

La poesia in funzione terapeutica per chi? Di certo non per il mutuante: Giovanni Amodio ma, in questo caso, neppure per l’autrice del diario: Stefania Erbante, Che si fugge tuttavia”! – Peloro 2000 edizioni.
L’altrui trasposizione in versi del proprio e intimo inferno, quale semplice cronaca d’un’esistenza giovanile fatta di fragilità e, quindi, di tanta vulnerabilità, può generare, e si spera, la necessaria spirale compulsiva per l’indispensabile percorso verso la luce e la normalità, quella intesa, naturalmente, secondo i canoni codificati dell’odierna società. Si intuisce che per la Erbante la forma diaristica era ed è, un annullarsi nella scrittura mentre nella trasposizione in versi dell’Amodio, rispettando tempo e contesto, è ricostruito sì il disagio ma, innanzitutto, la complessità e la vulnerabilità della diarista con qualche pudore però senza riserve.
E’ possibile dare un rendiconto critico? E’, alquanto, arduo perché non si sa a chi concedere il palmares: alla diarista o al mutuante? Però di una cosa si è certi: l’Erbante ha, senz’altro, trovato l’adulto ricettivo (Giovanni Amodio) che non ha chiuso la porta al dialogo e, soprattutto, all’ascolto perché solo così è possibile venir fuori sani e salvi dal labirinto del male oscuro o, più letterariamente, del male di vivere.

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