di Vincenzo Jacovino
Parlare di Angelo è rivedere il mio passato anzi il nostro vissuto fatto di tanti accidenti o avvenimenti ma anche di gioie fortemente introitate nonostante non sempre siano state intense. Parlare di lui è ritornare con la mente ma, soprattutto, col cuore a tutti i genuini ricordi personali, ossia: luoghi e momenti di vita
che alimentarono i miei dolori
le mie gioie
gli entusiasmi
e, anche, la giovanile rabbia
di entrambi perché, lui, era in simbiosi con il mio sentire, il mio vivere la quotidianità. Si è cercato, per entrambi, di gestire quel magone permanente che frullava e frullava con persistenza nella mente e nel cuore. Non so se Angelo sia mai riuscito a fugarlo, personalmente ancora no.
La sua scomparsa ha, si, stimolato le emozioni dei più, ma ha colpito profondamente gli amici soprattutto, quelli con i quali ha condiviso l’eccitazione poetica. Ha colpito profondamente me, suo amico fraterno, del lungo vissuto quotidiano pieno di silenzi, ma quanto ciarlieri, di serene e proficue chiacchiere su classici e autori contemporanei, di letture dei rispettivi scritti e di tanti progetti per i quali abbiamo discusso anche animatamente però, poi, gioito e, innanzi tutto, sperato. Entrambi investiti da una ossessiva ma intrigante follia: la poesia ed essa fu l’artefice galeotta del nostro primo incontro. Due dodicenni che tentavano di superare il personale disagio della prima infanzia non immergendosi nei vicoli e strade dei rispettivi rioni ma tramite i pochissimi libri e la frequentazione della poesia, elaborandola in proprio.
In terza media, un compagno di classe che era a conoscenza di questa mia follia mi propose: “Ti voglio presentare un mio amico, anche lui scrive poesie come te. Sono sicuro che vi intenderete”. Fu profetico perché fin dal primo incontro fu immediata l’empatica sintonia. Probabilmente, certe situazioni familiari abbastanza prossime nella loro drammaticità fecero da collante e, senz’altro, nell’inconscio maturò la convinzione che in due era meno doloroso elaborare il rispettivo disagio e insieme ci saremmo avviati, aiutandoci, verso gli anni della maturità.
Di proposito, qui, non si vuol parlare del poeta e scrittore Lippo perché in vita abbiamo diffusamente e a più riprese parlato della funzionalità della sua scrittura e delle sue opere. Ora si vuole ricordare solo ed esclusivamente l’uomo e l’amico fraterno e se è vero che
i poeti defunti dormono tranquilli
sotto i loro epitaffi
e hanno solo un sussulto d’indignazione
qualora un inutile scriba ricordi il loro nome ( E. Montale)
in questo caso, comunque, lo scriba è l’amico con il quale ha iniziato l’avventurosa navigazione non solo in quello straordinario gioco della poesia che secondo Bloom porta il fuoco e la luce in chi lo pratica ma quella dell’intenso e accidentato vissuto quotidiano per cui, in lui, non ci sarà un sussulto d’indignazione ma, sono certo, un grande e accattivante sorriso.
In vita, nonostante per ragioni di sopravvivenza si era a volte distanti, era però sufficiente, per entrambi, lo squillo del telefono o quello del citofono per unire i nostri pensieri, le nostre intime afflizioni o gioie in lunghi momenti di isolamento ove, a colloquiare, erano le nostre menti. E non era mai il momento giusto per rompere quei silenzi ciarlieri perché si temeva che lo sciabordar dei nostri pensieri, da una sponda all’altra, fosse coperto se non annullato dal proferire delle parole. Per la verità è che quello che cambiava in quel lasso di tempo era il suono non delle probabili parole ma delle emozioni che viaggiavano con reciprocità dall’uno all’altro.
Ora la memoria servirà a tener vivo tutti i momenti che hanno accompagnato il nostro progetto di vita insieme, i pensieri che ci si trasmetteva in quei lunghi silenzi ma, soprattutto, che ciascuno di noi, davanti ai più disparati e intrigati accidenti di percorso, c’era l’uno per l’altro e viceversa.
La memoria continuerà a tenerti vivo, caro amico e fratello, fin a quando non giungerà presso la mia riva Caronte, il traghettatore.
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