di Roberto Tortora
Pietro Paganelli, 72 anni, di
Napoli, perseguitato dalle cartelle esattoriali ha lasciato scritto: “La
dignità vale più della vita di un uomo.”
Il suicidio è l’atto estremo
contro la ragione. Spiegarlo sarebbe una contraddizione logica, preferiamo
fermarci sull’orlo del buio. Sulla soglia del buco nero nel quale è precipitato
chi ha puntato una pistola alla propria tempia, o chi si è stretto un cappio
intorno al collo. Non abbiamo risorse per comprendere le ragioni che conducono
un essere umano a preferire l’uscita di scena dalla vita. Possiamo solo
immaginarlo sorridente e disperato, fragilissimo eppure stoico, mentre in cuor
suo dice addio alle persone, ai luoghi, agli oggetti che gli sono cari. Ci
sembra di vederlo annegare nell’assenza di luce e un istante dopo risalire
verso la luce. Specialmente se l’ultimo messaggio lasciato ai familiari fa
appello al nobile fulgore della dignità.
La dignità.
Ci fermiamo dinanzi alle ragioni,
ma non possiamo non inchinarci davanti alla nobiltà di un principio, uscire di
scena piuttosto che assistere all’inquinamento della gravitas, della fermezza morale.
Nasce da qui il senso di
solidarietà verso chi ha lasciato il posto che gli spettava nella vita. Nasce
da qui la compassione verso chi ha preferito uscire di scena prima che su di
lui cadesse una macchia e prima che quella macchia finisse per lambire anche familiari,
amici, colleghi, dipendenti.
Non si accende invece nessuna
solidarietà verso chi continua a rimanere al suo posto, macchiati lui e il
posto dalle accuse di appropriazione indebita di denaro pubblico. Si accende
invece un senso di rivolta morale e perfino intestinale contro senatori,
deputati, consiglieri regionali e provinciali che hanno approfittato della
carica pubblica che gli è stata conferita per conseguire vantaggi privati a
discapito della comunità che avrebbero dovuto rappresentare. Uomini e donne che
vediamo – nelle foto pubblicate sui giornali e nei servizi televisivi - sorridenti, vestiti con abiti di buon taglio,
curati dalle abili mani dei parrucchieri e dei massaggiatori pagati dai
contribuenti, abbronzati al sole delle vacanze pagate dai contribuenti, ben
nutriti dai cuochi pagati dai contribuenti.
A scanso di equivoci, questa non
vuole essere una istigazione al suicidio. E non si pretende neppure di alzare
una voce moralistica per condannare l’uomo caduto in tentazione. Nessuno vuol
scagliare la prima pietra.
Ma è rivoltante assistere allo
spettacolo di qualcuno che difende le azioni illecitamente commesse. Gli uomini
politici sotto inchiesta non si contano più. Ogni giorno interpretano una farsa
per tentare la grottesca difesa
dell’indifendibile: distrazione di fondi pubblici per l’acquisto di una laurea,
per il pranzo di un matrimonio, per le vacanze in un resort a cinque stelle.
Ad accomunare questa categoria di
esseri umani è solo la protervia. Niente altro. Nemmeno quel barlume di buon
senso, di compostezza morale, di decoro,
che dovrebbe spingerli a uscire silenziosamente e a capo chino dai
luoghi in cui si vive e si lavora al servizio della Comunità e non - sprezzantemente - al di sopra di essa.
La protervia li tiene incollati
ai luoghi del potere. Non se ne vanno. Non tolgono il disturbo. Non seguono
l’esempio dei colleghi stranieri che per molto meno rassegnano le dimissioni e
non si accorgono neppure che ad uscire di scena è stato l’alto senso della
dignità che sembrano aver smarrito per sempre.
Immagine: Tito Rossini, Il sarto, olio su tela
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