di Natty Patanè
Ogni
singolo disegno, ogni singolo graffio si muoveva imperlato di sudore, tutte le
scritte tatuate sulla schiena sembravano animarsi in un sussulto quasi
silenzioso, solo il respiro ritmava un suono che accompagnava tutto quel fluire
di sensazioni che, in quel momento, pensavi irripetibili. Così lo immaginavi,
inarcato e con gli occhi socchiusi mentre gli stringevi la mano che ti cingeva
e ti sfiorava le labbra, e poi furono baci e parole interrotte e la voglia,
inspiegabile, di piangere con nella gola il suo sapore che si mescolava alla
paura che potesse essere l’ultima volta che il suo odore lambiva ogni tuo
pensiero.
Dopo,
ma molto dopo, poggiavi la testa sulla tua mano facendo leva con il gomito per
guardarlo mentre si addormentava, il tuo sguardo era una carezza su tutto il
suo profilo e, forse, assumeva un contorno materiale che si fece percepire,
così, senza neanche aprire gli occhi Ian ti prese la mano e si fece abbracciare
in un gesto che avrebbe ripagato eserciti di solitari e abbandonati.
Poi
vinse il sonno, vinse sulla voglia di guardarlo fino a sfinire gli occhi, sulla
necessità di fissare ogni singolo respiro nella vista, nell’udito e in ogni
possibile senso, e nel sonno apparentemente si placò quella strana emozione che
già nella tua infanzia ti vivevi con angoscia ogni volta che pensavi che
qualcosa stesse per finire.
Alle
volte anche in gennaio il sole si apre in sprazzi d’oro e, quasi ironicamente,
il giorno dopo era uno di quelli. Verso il lavoro non potevi certo non notare
che sembrava fosse bello, il giorno, il giorno che lui stava lì, nel tuo letto
come ad aspettarti al rientro. Spogliatoio, camice, carrello tutto assumeva un
contorno irreale, come in quei video musicali in cui chi canta cammina in
strada, magari con le mani in tasca e un cappuccio di felpa calato fin quasi
sugli occhi e il passo sembra lieve, quasi che da un momento all’altro si
dovesse cominciare a volare e certo mica potevi smetterla di pensare che forse
era troppo, troppo bello, troppo tenero, troppo di tutto per te.
In
una stanza i soliti due che quasi litigavano interpretando ogni singola parola
e cercando giustificazioni per usarne una piuttosto che un’altra, dalla porta
successiva un vocione chiamava un collega suscitando il sorriso di una giovane
mamma che nella stanza accanto, per un attimo lasciava il pensiero dei figli da
capire e accompagnare.
Tu
scorrevi come se anche tu avessi le ruote sotto i piedi come il carrello che
spingevi insieme al tempo che ti separava dal rientro e dal suo sorriso.
Che
poi sempre, o quasi, il fermo da compimento alle attese e finalmente il
percorso inverso ti portò a girare la chiave nella toppa e trovarlo dove di
solito trovavi il vuoto e morbide erano le labbra e la barba corta e incolta.
Oggi
guardi cose, leggi parole, senti suoni e ti ripeti che quella frase così tanto
abusata dell’attimo da cogliere la senti così tanto tua e ti bei del vivere
ogni istante come se fosse compimento di vita e scritto in una lingua che solo
voi due parlate e che nessuno potrà mai tradurre senza che lasci per strada il
significato più vero di quei brividi, di quel respiro, di quei segni tatuati.
E
ora, mi saluti, ogni mattina incontrandomi con l’aria di chi, ancora, si ostina
a voler vivere con la pace incombente nel cuore.
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