Gordiano Lupi
Da L’Avana amore mio
Non
potrei mai andarmene di qui, perché la mia vita è qui, all’Avana, afferma Cabrera Infante. Non sa che il destino ha già deciso e che
lui dovrà dire addio alla sua terra per non rivederla mai più. Morire in esilio
è una sofferenza troppo grande per un poeta capace di cantare con dolcezza ogni
angolo della sua terra. Non ci vuol credere. Non può finire così, tra i grigi
fumi di Londra e i tramonti nascosti dal colore plumbeo del cielo. Per
scacciare la nostalgia lo scrittore ricorda ogni sera la sua terra e la saluta
con un semplice: “A dopo”. Cabrera Infante passa tutta la vita a dire: “A
dopo”, strana abitudine avanera, una sorta di riluttanza a dire addio, pure se
sa bene che non rivedrà la città delle colonne. Resta l’ispirazione letteraria,
quella non può toglierla nessuno. Resta la magia che L’Avana ha regalato alla
sua giovinezza. Restano i tramonti rosso fuoco che lo scrittore si porta nel
cuore per tutta la vita. La magia dell’Avana è nelle piccole cose del quotidiano,
in un suono di tamburi, nella danza sensuale di una mulatta, nei sogni a occhi
aperti davanti a un lungomare. La città delle colonne ti attende, scrittore in
esilio, e forse un giorno celebrerà il tuo funerale.
L’Avana di
oggi non sopporta i mendicanti, li scaccia sotto un sole inclemente e non dà
rifugio, perché
è una città
fatta di strade scure, marciapiedi vuoti, fontane asciutte, alberi senza
frutta, sporcizia e rovine. Resta la brezza che sale con gli odori del porto e
il vento di terra che reca puzza di petrolio dalla vicina raffineria e la
pestilenza delle fogne a cielo aperto. L’Avana è una città di statue
decapitate, palazzi cadenti, lampioni spenti, marciapiedi dissestati e acque
putride che si perdono in mille rivoli. Ed è per questo che possiamo affermare
insieme ad Abilio Estévez che niente spiega
L’Avana meglio del pianto e di una canzone disperata che rompe il silenzio
della notte.
Da Calcio e acciaio – Dimenticare Piombino
Emigranti. Pure noi siamo stati un
popolo di emigranti. Sembra che nessuno se
ne ricordi. Il nonno di Giovanni aveva disegnato santini e angeli per biglietti di auguri, volti di donne lontane per cartoline d’amore, cavalli dalle briglie sciolte che prendevano il volo verso patrie dimenticate. Non aveva mai smesso di coltivare un’abitudine appresa in terre lontane, scriveva lunghe frasi in inglese che abbandonava sulle panchine, sgrammaticate, zeppe di errori, ma era la lingua del popolo, imparata per sopravvivere. Povera gente andata al di là del mare, a bordo di inaffondabili Titanic, per fare fortuna, anche se spesso la fortuna restava un fiore non colto. Francesco diceva sempre di averla trovata quella fortuna, il viaggio aveva dato un senso alla sua vita, aveva conosciuto mondi nuovi ed era riuscito a superare difficoltà insormontabili. A quel tempo eravamo gli italiani mafiosi, mangiaspaghetti, banditi e traditori, brutti, sporchi e cattivi, come in un vecchio film di Ettore Scola. Il nonno aveva attraversato strade polverose, conosciuto paesi dei quali non ricordava i nomi, amato donne dai sorrisi misteriosi, nascosto malinconie quando si sentiva disprezzato e rifiutato. Non era americano, tanto bastava…
ne ricordi. Il nonno di Giovanni aveva disegnato santini e angeli per biglietti di auguri, volti di donne lontane per cartoline d’amore, cavalli dalle briglie sciolte che prendevano il volo verso patrie dimenticate. Non aveva mai smesso di coltivare un’abitudine appresa in terre lontane, scriveva lunghe frasi in inglese che abbandonava sulle panchine, sgrammaticate, zeppe di errori, ma era la lingua del popolo, imparata per sopravvivere. Povera gente andata al di là del mare, a bordo di inaffondabili Titanic, per fare fortuna, anche se spesso la fortuna restava un fiore non colto. Francesco diceva sempre di averla trovata quella fortuna, il viaggio aveva dato un senso alla sua vita, aveva conosciuto mondi nuovi ed era riuscito a superare difficoltà insormontabili. A quel tempo eravamo gli italiani mafiosi, mangiaspaghetti, banditi e traditori, brutti, sporchi e cattivi, come in un vecchio film di Ettore Scola. Il nonno aveva attraversato strade polverose, conosciuto paesi dei quali non ricordava i nomi, amato donne dai sorrisi misteriosi, nascosto malinconie quando si sentiva disprezzato e rifiutato. Non era americano, tanto bastava…
Non è cambiata tanto la mia città, in fin dei conti si vive ancora come
un tempo. C’è lo stesso corso, ci sono i cinema del centro, pure se hanno
aperto i multisala, ci sono tanti bar e friggitorie, anche se parecchi parlano
lingue straniere, vendono kebab, hamburger, roba così, che io mica la
comprendo. Hanno chiuso le vecchie sale giochi, mancano i carretti dei
venditori di semi e pistacchi, non vedo passare il venditore di gelati, non ci
sono biliardini e flipper. Per questo mi fermo poco in centro e non mangio il
gelato nei bar troppo eleganti che espongono gusti multicolori. Non avrebbe più
il sapore d’una volta. Avrebbe un gusto amaro. Saprebbe di rimpianto. Perché in
fondo in fondo lo comprendo cos’è cambiato. E non mi va mica tanto di
ammetterlo.
Da Miracolo a Piombino
Non
servivano parole. Non erano mai servite. Bastava uno sguardo. Tutto stava
cambiando, ormai. Marco, gli altri, il mondo, le piccole cose del quotidiano,
il suo paese di provincia percosso dai venti. Restavano i sogni, ma erano
incubi oscuri che rendevano inquiete le notti. Marco avrebbe voluto tornare al
passato, quando non si sentiva mai solo e aveva sempre qualcuno accanto per
indicare una strada. Robert lo guardò in silenzio, come sempre, sguardo
timoroso, pronto a spiccare il volo al primo accenno di pericolo. Era un povero
gabbiano del piccolo porto. Poteva soltanto osservare. Crescere e affrontare la
vita, superare il cambiamento, sarebbe stato un suo problema. Marco lo sapeva
bene, ma il suo dolore si stemperava tra le ali del gabbiano mentre disegnava virtuose
giravolte nell’azzurro incontaminato di quel mare in tempesta.
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