"click sull'immagine per ascoltare il finale di El Cimarron
foto e audio di Giuseppe Gavazza, giugno 2010
Teatro, musica, danza, arti visive si incrociano sempre più. Anche solo nel microcosmo di ciò a cui ho potuto assistere io a Torino e in altre città europee e di cui, in parte, ho riferito dalle pagine di TerPress, si deduce che anche nello spettacolo “le stagioni non sono più quelle di una volta”.
“A Torino le stagioni teatrali fanno concerti, quelle concertistiche fanno danza e quelle di danza fanno teatro. Tutto si rimescola come in un cocktail o come nell'opera dove tutto si mette in gioco: il suono, il gesto, l'immagine, la parola detta e cantata.”
scrivevo nell'articolo del 13 novembre scorso (La visione assordante) per tornare sul tema ancora il 15 gennaio (Teatro senza teatro).
La stagione di concerti Antidogma Musica, che da 23 anni programma liberamente musica non standard (La lente sul margine era il bel titolo di una stagione di alcuni, forse molti, anni fa) ha riproposto dopo 22 anni El Cimarron o la conquista della libertà di Hans Werner Henze : autobiografia dello schiavo evaso Esteban Montejo, recital per 4 musicisti in 15 quadri per baritono, flauto, chitarra, percussione. Un bell'esempio ed una matrice eccellente di per tanti lavori che mettono assieme musica e teatro.
Scritto dal compositore tedesco Hans Werner Henze, classe 1926, nella traduzione tedesca e adattamento di Magnus Enzensberger, fu proposto in prima mondiale all'Aldeburgh Festival nell'estate 1970 con un quartetto d'interpreti strepitoso, degno della difficoltà del brano: William Pearson, Karlheinz Zoeller, Leo Brouwer, Stomu Yamash'ta.
Tradotto appositamente in spagnolo per l'Ensemble Antidogma fu proposto in prima italiana a Torino nel 1970 e portato in tournee in Italia e nel mondo con Giancarlo Montanaro, baritono, Antonmario Semolini, flauto, Dora Filippone, chitarra, Carlo Cantone, percussione.
Riascoltata oggi (eseguita in modo eccellente ancora da Antonmario Semolini, con Marco Ricagno, baritono, Thierry Miroglio percussioni e Carmelo Lacertosa, chitarra) la composizione dimostra tutto il suo valore: Henze (a mio avviso) è uno dei rari compositori del dopoguerra in possesso della vis teatrale, quella capacità di contrappuntare i ritmi e i tempi sonori della musica e quelli drammaturgici del testo, della narrazione, dell'azione scenica. Un problema non solo della musica recente: un compositore incontestabile come Beethoven non ci ha mai azzeccato molto nel teatro musicale mentre un grandissimo operista come Verdi, ad esempio, sfugge spesso ad una analisi strettamente musicale che cerca invano di capire perché certe pagine di enorme forza drammaturgica si rivelino apparentemente “banali” alla pura analisi musicale.
Gli anni di nascita di El Cimarron sono fertili per una fase già avanzata della sperimentazione musicale; l'Avanguardia aveva rotto gli argini e gli schemi, sostituendoli con altri meno collaudati (e spesso altrettanto più dogmatici) ma in parte si permetteva anche di elaborare le nuove scoperte più efficaci, ripetendo e riproponendo talvolta fuori dall'ansia di un obbiettivo irraggiungibile (e in fondo sterile) come quello del nuovo ad ogni costo ad ogni brano. Henze, ben immerso nel suo tempo, era anche visto dai più duri e puri come relativamente tradizionalista e conservatore.
El Cimarron mi è piaciuto come mi piacciono le belle foto di quegli anni: sono datate, riconoscibili, segnate da un epoca, da un passato, che sta ad una distanza di anni al limite dello storico personale, cioè alla distanza (circa un ciclo generazionale) abbastanza vicina per essere memoria personale di un adulto di un proprio vissuto già adulto, ma abbastanza lontana per essere sentita ormai come trascorsa, passata appunto.
L'ho ascoltato con l'emozione con cui guardo oggi le Polaroid (in quanto istantanee necessariamente testimonianza di un evento contemporaneo alla scatto) di un evento già di per se forte, drammatico, umano. Come la Polaroid è in se - con i suoi colori e il suo formato - datata e riconoscibile, così ho ascoltato El Cimarron: musica dura, cangiante, spigolosa, disinibita, acerba, non dogmatica, comunicativa, inesorabilmente anni '60.
Potete scaricare qui il programma di sala che vi fornirà informazioni essenziali sul brano, soprattutto sulla storia che lo ha ispirato, la storia vera e meravigliosamente umana di Esteban Montejo, schiavo, poi evaso e rivoluzionario, così come raccontata dalla sua viva voce di sopravvissuto di anni 104, allo scrittore ed etnologo Miguel Garnet, in un ospizio a l'Habana nel 1963.
Prendo a prestito e riporto qui la bella frase scelta da Enrico Correggia ad epigrafe del concerto sul libretto di sala:
L'uomo libero può essere tanto buono che malvagio, ma l'uomo schiavo è un disonore della natura
Friedrich Nietzsche
Posta un commento