QUESTO È DAVVERO IL MIGLIORE DEI MONDI POSSIBILI?

 

Martina Testa

fonte: Martina Testa


Camminare per strada da sola, in una strada deserta. Ci conforta un po’ quella solitudine e constatare con lo sguardo che nessuno ci stia seguendo nell’oscurità buia e silenziosa.
Quel silenzio però è terribile, incrementa le ombre e la paura che un nemico ignoto possa fermarci e colpirci con delle molestie: anche solo una battuta, un sorriso, uno sguardo non gradito.
Forse tutte hanno provato quella terribile sensazione di angoscia per strada.Tutte poi, tornate a casa, hanno sospirato per essere scampate a un pericolo, non richiesto, non ricercato, nonostante si voglia far credere il contrario.
Non tutte, purtroppo, hanno potuto tirare quel sospiro di sollievo.

Ecco questa è solo uno dei mille terribili scenari che una donna oggi si vede costretta ad affrontare in una società che non ha abbandonato i suoi retaggi paternalistici. Anzi, essi  sono diventati più insidiosi e sottili, oramai radicati in una mentalità diffusa e difficile da estirpare. In una forma più o meno esplicita, a volte travestita dal politically correct, l’odiosa formula “se l’è andata a cercare”  riecheggia sempre contro la donna, inesorabile, atavica colpa, un suo marchio indelebile. Come se fossimo sempre noi le provocatrici (questo a quanto pare giustifica una violenza), pretesto per ritorcerci contro invisibili colpe ed essere giudicate come ingenue, sante o prostitute. Certo se poi abbiamo bevuto “più del necessario” ci siamo davvero meritate tutto, siamo davvero delle troie (come se le troie non meritassero rispetto) o delle povere incoscienti.

Sono pregiudizi dolorosi, che subiamo tutti sulla nostra pelle, frutto di una cultura che ha assegnato dei ruoli all’uomo e alla donna che in parte spiegherebbero l’atteggiamento resistivo nell’approvazione di diritti civili elementari ad esempio per le Lgbt, percorso naturale (non stiamo parlando di istinti e preferenze sessuali, in fondo?) in uno stato di diritto. Entrano quindi in gioco responsabilità educative e politiche che aspirano invece a mantenere un supposto equilibrio sociale.

Perché supposto? Viviamo in una società precaria, liquida, in cui i ritmi vengono scanditi dal capitale che influenza i nostri ideali e perfino i nostri rapporti. Entrano in gioco meccanismi psicologici insidiosi, profondi: non ci fidiamo. Non ci fidiamo degli altri, non ci fidiamo del tempo, non ci fidiamo di noi stessi. E non abbiamo fiducia in noi stessi perché viviamo in una società che ci ha abituato allo scacco, al fallimento. Una società suddivisa in perdenti e vincitori, il cui podio è fatto di arrivismo e arroganza. I cui metri di valutazione si basano sull’odiosa espressione “meritocrazia” fondata su criteri prettamente  economici che non tengono conto di  potenzialità che esulano dagli sterili parametri di una società fondata sul capitale.

Detto in parole semplici: un ragazzo formato sulle strade delle periferie non avrà le stesse opportunità di un altro cresciuto in una famiglia “per bene”. Non è determinismo, non bisogna fare l’errore di assumere atteggiamenti giustificazionisti rispetto alle responsabilità politiche. In termini pragmatici un governo è molto più interessato agli individui facilmente assoggettabili a dinamiche di convivenza pacifica all’interno della società che ad altri che potrebbero destabilizzare tale supposto equilibrio.

Ad esempio: qualcuno si sta ponendo seriamente il problema dei detenuti che si trovano in carceri sempre più sovraffollate,  in un sistema di diritto (?) che predilige la punizione e non la riabilitazione?  E non bisogna certo aver letto Foucault per aver compreso il perché di questo quesito.

Viviamo in una  società liquida, non pregante. Lo schermo dei nostri dispositivi informatici è la lente opaca con il quale guardiamo il mondo esterno sempre più mediato, contribuendo a costruire i nostri  “lager mentali” e cementificando i nostri pregiudizi. Siamo arroganti e presuntuosi, prostrati dal capitale liquido e insidioso che ci ha reso sempre più poveri di umanità.

Scansiamo un barbone per strada, deridiamo un venditore ambulante. Vedere un ragazzino cresciuto in periferia che dedica un brano neomelodico alla fidanzata ci strappa un sorriso di snobismo,  preferiamo, invece, chi mette la propria intimità sui social, a ludibrio di like frenetici e inconsapevoli.

Siamo tutti classisti, siamo tutti colpevoli. Abbiamo perso il senso della realtà e della poesia. Tutto questo non può che avere delle conseguenze sulla vita privata delle persone.

Ad esempio molti giovani vivono un’esistenza precaria e non possono nemmeno immaginare un futuro con una professione “stabile e sicura”, di stabile non ci sono nemmeno i rapporti. No che questa possibilità sia il migliore dei mondi possibili, non è questo il punto: è che ci sentiamo sempre più soli e non sappiamo più di chi fidarci, con chi metterci a nudo. Siamo talmente abituati allo scacco e alla frustrazione che i nostri orizzonti di attesa della società si sono abbassati. Ma di  conseguenza le nostre aspirazioni si sono ampliate, con un intensificarsi dei nostri ideali: molti di noi non sui fermano a un lavoro solo perché remunerativo o ad una relazione solo perché il primo porto sicuro.

Si ricercano sempre nuovi orizzonti, più pregnanti per noi e per la nostra esistenza. Da questo bisogna partire, per questo bisogna combattere.

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