di Roberto Tortora
Andrea Cedola, La tinta
uniforme del romanzo. Il ciclo verghiano dell’eros. Giorgio Pozzi Editore,
Ravenna, 2012,
pp. 176, € 15,00.
I romanzi giovanili di Giovanni
Verga, Una peccatrice, Storia di una capinera, Eva, Tigre
reale, Eros, sono sempre stati parzialmente
oscurati dai capolavori, I Malavoglia
e Mastro-don Gesualdo. E’ il
ricorrente destino delle opere cosiddette “minori”. Che li si chiami erotici,
sentimentali o scapigliati, nella Storia della letteratura italiana rimarranno
classificati come i romanzi scritti prima della “svolta” verista. Eppure già il
Croce notava che forse non ci fu una
vera e propria svolta tra le storie romantico passionali ambientate in contesti
aristocratici e borghesi e la vita degli umili siciliani raccontata nella fase
della maturità.
Da decenni, non a caso, si
registra un positivo risveglio di interesse nei confronti della prima
produzione verghiana alla ricerca di una linea di continuità, alla ricerca cioè
di quegli elementi tematici e narratologici che sarebbero pienamente sbocciati più
tardi, nelle opere maggiori.
Andrea Cedola, ricercatore di
Letteratura italiana presso il dipartimento di Lettere dell’Università di
Cassino, sottopone i primi romanzi di Giovanni Verga ad una attenta
ricognizione testuale per enuclearne la tematica della morte, declinata in
tutte le sue manifestazioni oggettuali, simboliche, scenografiche. Si tratta di
una originale chiave di lettura che prende le mosse dal racconto Ultima giornata, compreso nella raccolta
Per le vie, di ambientazione milanese,
e che costituisce, per Cedola, una sorta di implicito manifesto di poetica.
Nei primi romanzi verghiani la
morte, che si presenti come descrizione di un cadavere, come apparizione di un
convoglio funebre o di una bara, segna una frattura nello svolgimento delle
passioni, separa i vivi dai morti e al tempo stesso li unisce in un unico
destino. Costituisce, inoltre, l’esperienza formativa per antonomasia di un
essere umano, scandisce il destino dei vinti (aristocratici milanesi o
pescatori siciliani, non fa differenza). La morte si presenta come sconfitta di
un progetto esistenziale, specialmente se si consuma “lontano da casa”: accade
così a Maria, la giovane monaca che varca la soglia del convento come se
varcasse la soglia del regno dell’Ade, e a padron ‘Ntoni.
La morte rappresenta lo sguardo opaco eppure infallibile per
demistificare l’ipocrisia del mondo reale, a maggior ragione se si tratta del
mondo fatto di piume e cipria descritto nelle opere passionali.
Ma la morte del personaggio,
sostiene Andrea Cedola, costituisce
anche uno strumento narrativo, un’esperienza di carattere narratologico, dal
momento che essa assicura al Verga la “giusta distanza” dai fatti narrati,
contro la propria giovanile tendenza al coinvolgimento e all’autoritratto. In
questo senso, il narratore che descrive freddamente un corpo agonizzante è
distaccato e scientifico, secondo la lezione di Zola.
La distanza, prodotta
dall’esperienza della morte, “permetterà al narratore di osservare il dramma
con clinica obiettività e di aggiungervi “soltanto
la tinta uniforme, che può chiamarsi la vernice del romanzo”.
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