100 ANNI DALLA NASCITA DI JOSEPH BEUYS

 Oggi 12 maggio 2021, decorrono 100 anni dalla nascita di Joseph Beuys (1921-1986).

Lo ricordo perché secondo me è stato uno dei cinque più importanti artisti del '900. In Italia è poco noto, anche se ha molto amato il nostro paese, in particolare due luoghi del Sud a cui lo hanno legato grandi amicizie: Napoli, col gallerista Lucio Amelio e Bolognano (Pescara) con Lucrezia De Domizio. Lo trovo fondamentale perché ha cambiato il modo di intendere l'arte, come, per altri versi, Duchamp. Se Duchamp ha introdotto la dimensione mentale dell'opera, Beuys ha coniugato alla mente il corpo. Si è definito scultore sociale, perché riteneva che l'artista dovesse promuovere un processo di trasformazione degli uomini, che, attraverso una presa di coscienza individuale potessero poi agire collettivamente (politicamente) per cambiare il mondo. Non gli interessava affatto il lato estetico di un lavoro e, spesso, delle sue opere resta solo il ricordo, la documentazione fotografica o filmata. Lui si poneva come catalizzatore di energia, assumendo il ruolo di sciamano, chiedendo a chiunque di sviluppare la propria creatività. Una sua frase, che è anche il titolo di una foto che lo vede avanzare verso lo spettatore è: "La Rivoluzione siamo noi". Indossava sempre un cappello di feltro e un giubbotto da pescatore (di anime). Il cappello ricordava un episodio che lo aveva trasformato in gioventù. Pilota di aereo nella seconda guerra mondiale, era precipitato in Crimea e rischiava la morte. Fu salvato da tartari nomadi, che cosparsero di grasso il suo corpo e lo avvolsero in coperte di feltro. Da questa esperienza decise di diventare artista e grasso e feltro furono tra i suoi materiali privilegiati. Divenne insegnante all'Accademia di Dusseldorf e formò alcuni dei più famosi artisti tedeschi.

Fu tra i primi a utilizzare le installazioni e la performance. Quando si sentì ingabbiato dall'istituzione la lasciò e fondò una sua libera università. Mitica la sua performance "I like America and America likes me" a New York nel 1974. Arrivò in aereo e si fece trasportare in ambulanza in galleria per non toccare il suolo americano. Si fece chiudere in una gabbia coprendosi con una coperta di feltro e tenendo in mano un bastone da pastore. Nella gabbia era ospitato un coyote, che visse alcuni giorni con l'artista, realizzando con lui, nel tempo, una relazione. Ovviamente, l'America che Beuys amava era quella prima della colonizzazione, rappresentata dal coyote, non la patria del capitalismo. Sviluppò, una sensibilità ecologista, che lo portò a essere tra i fondatori del partito dei Verdi. Alla quadriennale di Kassel del 1982 (io c'ero) fece posare davanti alla sede della mostra 7000 lastre di basalto. I visitatori erano invitati ad adottarle, e per ogni lastra sarebbe stata piantata una quercia nella città. A Bolognano realizzò un lavoro intitolato "Difesa della Natura" ridando valore alle coltivazioni di olivo. Con l'olio realizzò un'opera intitolata "Olivestone" riempiendo 5 vasche di lavorazione con grandi pietre di basalto sulle quali versava quotidianamente l'olio. Una fu per anni nelle collezioni del Castello di Rivoli, poi finirono tutte a Zurigo. Mi ricordo che a distanza di mesi, nella sala che lo ospitava, rimase l'odore dell'olio.

Un altro tipo lavoro per cambiare le persone consisteva in conferenze dove, servendosi di gesso e lavagne, illustrava le sue teorie per superare il capitalismo e il comunismo, verso una società più armonica. Sono restate alcune lavagne coi suoi disegni e scritte, a testimoniare questi eventi. A Napoli, dopo il terremoto, realizzò un lavoro intitolato "Terremoto in Palazzo", con vecchi tavoli in legno, e altri oggetti fragili come bottiglie e vasi in terracotta, in precario equilibrio. L'opera fa parte del ciclo "Terrae Motus", commissionato da Lucio Amelio a grandi artisti internazionali (ricordo Twombly e Warhol), e che credo sia ancora ospitato alla Reggia di Caserta. Erede del Romanticismo tedesco, utopista come uno dei suoi modelli, l'antroposofo Rudolf Steiner, ci ha detto che ogni uomo deve liberare la sua naturale creatività, magari non rincoglionendosi a scrivere cazzate sui cosiddetti social. Perché "La Rivoluzione siamo noi".

Sauro Sassi



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