Non ci sono palpebre per le orecchie


Giuseppe Gavazza




Spalancare gli occhi è (anche) un atto muscolare, come spalancare le braccia, ma aprire o chiudere le orecchie è solo un atto mentale, a meno di tapparsele con le mani, ma è scomodo e dura poco.


Di rado ci fermiamo a riflettere che la realtà di musicisti da noi conosciuti (i cosiddetti Classici), vissuti secoli fa ma che sentiamo famigliari e vicini attraverso le loro musiche (quanti altri amici mi hanno saputo consolare come Johann Sebastian?) era qualcosa probabilmente oggi per noi inconcepibile. Leggiamo nelle biografie di viaggi faticosissimi affrontati per andare ad ascoltare una nuova sinfonia, di giorni e notti di luce tremula spesi a copiarne a mano la partitura per poterla studiare, conoscere e apprendere, per leggerla alla tastiera - o semplicemente con le orecchie della mente - e per farla leggere anche ad altri.

Sappiamo che non esistevano aerei, treni, auto ma solo carrozze e strade sconnesse, non esistevano fotocopiatrici e fax; ma forse non ci rendiamo conto di come questo abbia cambiato la vita. E non sto parlando di Once upon a time: quando i miei nonni erano ragazzini (qui) ad esempio a Vienna si trascrivevano per ensemble da camera i nuovi lavori, anche orchestrali, di compositori francesi per poterli ascoltare e far ascoltare ad una ristretta cerchia di musicisti e appassionati e altrettanto accadeva in tante altre città nel mondo. Non esistevano - e lo sappiamo - i nastri, i cd, i registratori, i lettori mp3, la radio, Internet, Ipod, YouTube, iComposition, i cellulari.

Mai come oggi aprirsi all’ascolto significa chiudersi a tanti suoni, filtrare a maglie strette, come fanno i cetacei per trattenere il plancton che li nutre. Ascoltare nel passato prossimo e remoto era innanzitutto un atto di volontà e passione che presupponeva e necessitava sforzo, competenza e conoscenza. Oggi più che ascoltare si sente.
I suoni (musica?) scorrono come scorre l'acqua: anche l'acqua un tempo era preziosa e si conservava. Oggi sprechiamo acqua potabile per lavare l'auto e ci sciacquiamo la mente con suoni occasionali.

Mai come oggi siamo responsabili del nostro ascolto: nessuno potrebbe raccontarci che quello che stiamo ascoltando è la cosa migliore, che non c'è nulla che ci possa piacere di più, nessuno dovrebbe indicarci cosa ci piace, nessuno dovrebbe filtrare per noi.
Invece ciò accade quasi sempre.
[Metto da parte, per necessità di tempo di lettura e spazio di scrittura (sono la stessa cosa?) la questione delle competenze specifiche, del sapere degli specialisti alla cui opinione dobbiamo-possiamo affidarci liquidandola con un invito a riflettere su ciò che è bello, ciò che vale e ciò che piace, ciò che vende e perché: parafrasando Bateson: ciò che vende sopravvive e ciò che vende è quello che vende.]
Siamo i soli responsabili di quello che sentiamo, di quanto dovremmo scegliere di ascoltare (e riascoltare, studiare, conoscere, amare, imparare) e di ciò che ci piace e preferiamo, semplicemente perché abbiamo un accesso pressoché infinito a tutti i suoni del mondo per cercare, trovare, confrontare, farci un’opinione, giudicare, farci un’opinione dei giudizi degli altri, dare un giudizio delle opinioni degli altri.

Aprite bene le orecchie e fate scorrere molti suoni prima di scegliere quelli da trattenere: fidatevi della vostra capacità d’ascolto. Ci si nutre di suoni, la mente si può intossicare (anche) attraverso le orecchie e può essere ben peggio di un'intossicazione alimentare.

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